giovedì 14 febbraio 2013

Majini


Kache vomita. E' la terza volta oggi. Il suo stomaco si contorce e le fa male mentre si piega su se stessa con le vene delle tempie che pulsano forte; le capita ogni giorno, ma soltanto quando torna a casa. 

Kache lavora a Malindi come domestica in una casa Swahili. I suoi padroni sono benestanti, gestiscono qualche chiosco e alcuni matatu (piccoli furgoncini impiegati per il trasporto collettivo) che viaggiano sempre pieni sulla strada che corre lungo la costa. Come altre famiglie swahili si possono permettere una collaboratrice Giriama che proviene da una regione interna, da una piccola località sita in una macchia di foresta da cui Kache ne esce come un animale spaventato. Questa è l'idea che gli Swahili hanno dei Giriama, esseri umani appena degni di questo nome, Nyika, popolo della foresta (poco affettuosamente selvaggi). E non vedono nemmeno molto bene gli altri otto gruppi che, con i Giriama, sono compresi sotto l'etichetta tribale Mijikenda inventata negli anni trenta dagli inglesi (che hanno sempre adorato semplificare le questioni complesse piuttosto che sforzarsi di comprenderle) per venire incontro, ad ogni costo, ai loro interessi coloniali ed imperialistici (oltre ad essere gli unici a distinguersi, con i cani, per camminare in strada sotto il sole africano del mezzodì).

Quando gli Swahili pensano al Kenya non rivolgono lo sguardo verso l'interno, verso la capitale Nairobi o alle sconfinate savane africane, ma preferiscono volgergli le spalle e guardare verso l'oceano, oltre l'orizzonte. Del resto i commerci che permisero il fiorire di una raffinata civiltà sulla costa africana dopo il VII secolo si sono sviluppati sfruttando i movimenti del Kuzi e del Kaskasi, due monsoni che in passato hanno fatto dell'Oceano Indiano un vero e proprio lago islamico solcato da imbarcazioni con equipaggi tanto eterogenei da far rabbrividire qualsiasi purista culturale (ce ne sono ancora in giro, possiedono un enorme corno che gli spunta dalla fronte). E' in questi antichi commerci, spinti da venti favorevoli per scambiare prodotti di diverse nicchie ecologiche (oltre a datteri ed altri cibi necessari alla rottura del digiuno di ramadan), che affondano le radici storiche della ricchezza e dello status sociale degli Swahili della costa del Kenya (che godono comunque di un prestigio di gran lunga inferiore rispetto agli arabi, agli indiani e ai bianchi che abitano le medesime regioni).

Sebbene esistano ragioni storiche che invitano gli Swahili a guardare al di là del mare verso l'Arabia, l'Oman e lo Yemen, terre di ricchezza ma soprattutto di pia moralità, la popolazione islamica (swahili, africana o araba che sia), concorda nel ritenere che la costa kenyota sia diventata un impuro luogo di perdizione lasciva a causa del turismo occidentale che favorisce lo sviluppo della prostituzione ed aumenta la richiesta di droghe ad uso ricreazionale.

Kache non aveva tante altre possibilità. I ragazzi e le ragazze come lei, che non si impiegano come lavapiatti o camerieri a due dollari al giorno negli hotel italiani ed inglesi della costa, finiscono normalmente per alimentare il mercato della prostituzione affollando i bar frequentati da turisti e turiste bavosi, per morire poi dimenticati, divorati dall'aids. 

Kache stima molto i suoi padroni e quando torna al suo villaggio ne parla con ammirazione a sua sorella. La sua famiglia, come maggior la parte dei Giriama, è cristiana. Suo papà Kalume possiede, come ogni buon cristiano, una capanna buia con alcuni idoli posti su un ripiano di legno consumato; tra le effigi cattoliche si staglia una lunga scultura lignea dove vive lo spirito di un antenato. Il pastore della chiesa pentecostale, che da anni fa proseliti nel piccolo villaggio, dice che quella è la capanna del diavolo.

Kache non solo vomita, ma ha cattivi pensieri e a volte le capita di esprimersi in lingue sconosciute, pronuncia addirittura vocaboli arabi e sente delle voci. 

La sua situazione di disordine è un bel dilemma. Un dilemma complesso oltre che fortemente angosciante. Le categorie mediche occidentali avrebbero difficoltà a cogliere tale complessità. Si tratta forse di un un problema digestivo? Necessita di esami all'apparato digerente? Oppure si tratta di un problema di ordine mentale da collocare nell'ambito delle categorie della psicopatologia che riducono tali sintomi a forme di schizofrenia o psicosi confinate in stati mentali confusi?

Il fatto è che siamo stati abituati a pensare alla persona esclusivamente come ad un organismo biopsichico i cui confini coincidono naturalmente con quelli del corpo di un individuo. Il rischio è sempre quello di proiettare le nostre categorie pensando che esse siano la realtà anziché un possibile modo di intenderla. La concezione della persona in Africa è differente. Essa è intesa in termini relazionali, trascende l'individualità e si colloca in una trama più ampia, familiare, sociale e simbolica. Tanto che è considerato ammissibile che talvolta la propria condotta non sia il solo risultato di un'azione soggettiva, razionale o impulsiva, ma possa essere condivisa con entità esterne che si aggirano invisibili. Il dottore, in Africa, più che chiederti dove hai male ti chiederà dove sei stato ultimamente oppure cosa hai fatto e chi hai visto. L'eziologia di un disagio, di un disturbo o di un malanno vive dunque nelle pieghe delle relazioni sociali e da esse non si può separare.

Ultimamente Kache è stata a Malindi e quando mangia biryani (riso e montone stufati) non ha problemi, sta bene. Ricorda però di aver raccolto del denaro trovato in casa dei padroni, sul pavimento e se li è intascati.

E' quello che racconterà ad Hajj, il guaritore Swahili che Kache visiterà nel pomeriggio per affrontare il disordine esistenziale che sta vivendo.

Hajj sa bene che quella di far trovare soldi in terra è una strategia di alcuni majini, spiriti che arrivano via mare (dall'Arabia?) che possono essere responsabili anche di gravi disabilità infantili. Si tratta di terribili esattori per coloro che pretendono facili ricchezze stringendo patti diabolici con queste entità che arrivano, per ritorsione, a succhiare il sangue di adulti e bambini rendendoli deboli ed emaciati. Per evitare la minaccia è necessario accondiscenderli con abbondanti sacrifici di animali.

Sebbene lo zio paterno di Kache, il fratello di Kalume, sia un abile guaritore Giriama nessuno della famiglia biasima Kache per aver scelto di recarsi da un guaritore swahili che per curare utilizza la parola scritta anziché polveri vegetali contenute in piccole zucche.

Seduto su una stuoia, con le gambe incrociate, Hajj consulta, apparentemente a caso, una pagina della Falak (libro di geomanzia islamico) per divinare quale sia, nello specifico, il majini che affligge Kache. Gli occhi stanchi ed opachi della ragazza seguono i movimenti del dito del guaritore sulle pagine del libro che, attraverso una mantica astrale (rifiutata dall'islam ufficiale), viene condotto alla rivelazione di una configurazione cosmica che svelerà l'identità dello spirito. Quello che si è impossessato di Kache è uno spirito che la vuole convertire all'Islam. La tormenta giorno e notte e la spinge a rifiutare o rigettare il cibo giriama (ugali, polenta di mais, roditori del bush stufati, vino di palma), cibo considerato haramu (proibito, impuro), o semplicemente non adeguato per gli islamici. Ecco perché vomita, quel cibo la contamina.

Hajj curerà Kache attraverso la parola del Libro. Lui è un mwalimu wa kitabu, maestro del Libro. Dopo aver divinato grazie alla Falak apre il Corano (in realtà una  sua versione economica in formato ridotto, ma il potere del Supremo non bada a questi dettagli) per trovare il versetto adeguato. Poi lo trascrive. Un raggio di sole fa brillare i ricami dorati della kofìa che Hajj porta sul capo chino sul foglio in cui viene trascritta accuratamente la preghiera con un pennello. Si tratta di un atto sacro, da esercitare con grande perizia ed attenzione, l'arte calligrafica trascende la materia, è la parola di Dio che si manifesta in una raffinata veste estetica.

L'inchiostro che usa Hajj è solubile ed il foglietto con l'invocazione è poi immerso in una bottiglietta colma di acqua di rose dove presto si dissolverà. Kache berrà la pozione incorporando direttamente la preghiera che la curerà.

Un guaritore tradizionale giriama non avrebbe potuto trovare un rimedio altrettanto efficace per questo tipo di afflizione, i suoi strumenti simbolici sono troppo deboli per delle forze che discendono direttamente da un dio così potente. La subordinazione sociale dei Giriama si riflette anche sull'ambito simbolico, è questo loro pensiero che rende gli spiriti ed i rimedi islamici superiori rispetto a quelli tradizionali africani. Come buoni subalterni i Giriama credono davvero di essere naturalmente inferiori agli Swahili. E ciò non fa che rafforzare l'egemonia degli uni sugli altri.

Kache ha seguito comunque il consiglio dello zio che l'ha invitata a sacrificare un pollo per scongiurare una eventuale offesa arrecata ad un antenato.

Nel divenire tossico il suo corpo si è trasformato in una sintesi delle disuguaglianze che caratterizzano i rapporti sociali sulla costa del Kenya fra Giriama e Swahili. La sua malattia era una difficoltà angosciante a pensarsi nel mondo come ragazza Giriama che, fuori dai precetti tradizionali, vorrebbe sposare un gentiluomo swahili per migliorare la propria situazione esistenziale sfuggendo alla condizione di subalternità.

Mentre torna a casa Kache pensa e continua a rielaborare la sua esperienza. Ha tremendamente bisogno di ridefinire e riaffermare in maniera inedita la sua presenza nel mondo. Sarà questa trasformazione, iniziata con l'intrusione del majini e proseguita con le cure di Hajj a determinare la sua guarigione, collocandola in una nuova trama di senso.

Domani è venerdì, non lavorerà.

Camminando sul sentiero sterrato attraversa brulli campi di cassava invasi da erbacce. In lontananza fa da sfondo una piantagione di lunghe ed eleganti palme da cocco. Fa una sosta all'ombra di un albero frondoso con un tronco sottile, totalmente privo di corteccia. E' una pianta di chinino, la corteccia viene rimossa per farne un infuso contro la malaria. Qui, la malaria, ce l'hanno tutti.

mercoledì 12 dicembre 2012

Una realtà parallela


Immaginate, nel crepuscolo mattutino, umili viandanti mazatechi percorrere i numerosi sentieri della Sierra di Huautla, che venano di terra scura la nebbiosa selva. 

D'improvviso tutti quanti, ovunque si trovino, rallentano ed obbedendo ad un'antica disposizione d'animo che li lega a quei luoghi con intricati ma saldi nodi culturali, si voltano verso oriente guardando alla montagna più alta, richiamati dal dirompere lucente e diamantato dei primi raggi di sole della giornata. Con gesto composto, raccolto e solenne, ognuno di loro si toglie il cappello e lo porta al petto rispettosamente, pregando sottovoce, per salutare l'astro nascente (che illuminerà tanto la loro giornata quanto quella dei coyotes bastardi; intermediari che sfruttano il lavoro di piccole cooperative contadine comprando loro il caffè, prodotto con estrema fatica, a prezzi iniqui, per aumentare a dismisura il margine dei loro profitti personali e quello dei politici corrotti che li sostengono). 

Nell'incerta luce mattutina, Josivel attraversa il cortile sterrato di casa sua, stringendo tra le braccia due grossi vasi di terracotta, inciampa e cade rovinosamente a terra procurandosi, con i cocci affilati, dei tagli sulle braccia e sul viso. Sua mamma Clementina accorre spaventata. Non riesce a darsi pace mentre cura le ferite di Josivel tamponandole con un decotto di erbe ed aguardiente. E' arrabbiata con se stessa perché la disgrazia poteva essere evitata. Sarebbe infatti bastato prestare attenzione al sogno che aveva fatto la notte precedente: un toro imbizzarrito si era divincolato dalle corde che lo assicuravano alla staccionata e, nella sua corsa cieca giù dal pendio, aveva travolto la piccola. Era un segno da non sottovalutare. 

I sogni sono misteriosi. 

L'impostazione razionalistica che ci ha tramandato Platone si fonda sostanzialmente sull'idea che essi non siano altro che il prodotto di un inconscio dominato da passioni ed irascibilità in cui strisciano desideri inconfessabili che durante il giorno vengono tenuti a bada dalla razionalità che li governa. Ma nottetempo, quando il razionale è affievolito, assopito e distratto, queste forze (che non dormono mai) prendono vigore, si insinuano in pertugi insospettabili ed escono allo scoperto per mostrarsi in tutta la loro bizzarría o mostruosità prendendo un sopravvento temporaneo sul sorvegliante (che ronfa grasso con i piedi incrociati su una sedia e le chiavi della cella sul tavolo). 

Quando Clementina sogna non crede di essere vittima di un moderno frullatore notturno che in alcune fortunate happy-hour si diverte a servire milk-shake di irrazionalità e desideri nascosti mescolati a ricordi più o meno recenti. Per lei i sogni sono uno strumento conoscitivo. Per lei sognare significa esplorare una diversa realtà che, pur apparendo fosca e lontana, sarebbe strettamente interrelata alla realtà quotidiana fino a influenzarne gli accadimenti che non avrebbero dunque un corso casuale, bensì necessario. 

Per Spencer e Tylor, due antropologi degli albori della disciplina, il sogno rivestirebbe addirittura un ruolo fondamentale nella nascita del pensiero religioso. Secondo Tylor gli eventi prodigiosi vissuti nei sogni, dall'esperienza del volo, a quella di coprire lunghe distanze, fino all'incontro con persone defunte, avrebbero fatto nascere nei primitivi l'idea dell'esistenza di un doppio spirituale in grado di sopravvivere dopo la morte dal quale si sarebbe sviluppata una delle prime forme religiose in assoluto: il culto degli antenati. Attribuendo poi il "doppio" anche ad animali e piante si sarebbe aperta la strada verso la concezione dell'animismo (a me E. B. Tylor sta simpatico e anche se mi prenderanno per pazzo - di solito succede così quando si dà ragione ad un evoluzionista - a mio avviso questa sua teoria è stata troppo sbrigativamente liquidata e varrebbe la pena riprenderla in considerazione).

Ma il sogno ha una caratteristica tutta sua. Si presenta sempre quando dormiamo e quindi non c'è verso di poter intervenire su quegli accadimenti che dobbiamo necessariamente vivere in modo passivo. Nell'interpretazione amerindia ciò è determinato dal fatto che è una nostra componente spirituale a staccarsi dal corpo sognante, che continua a giacere addormentato mentre ella vaga in una dimensione onirica.

Per poter intervenire su quella realtà bisognerebbe saper trasformare la notte in giorno ed entrarci in condizioni di veglia. Poterlo fare significherebbe trovare le cause dei disagi che ci affliggono, degli equilibri perduti e dei malanni che ci fiaccano durante l'esistenza, per porvi rimedio. Se volete diventare degli specialisti del sacro ed avventurarvi in tale realtà provate ad allenarvi ad agitare le mani nel letto proprio mentre state dormendo e sognando, senza interrompere né il sonno né il sogno. Se non ce la fate rivolgetevi a chi lo fa di mestiere (è un consiglio) e fatevi accompagnare in quella realtà assicurandovi che la conosca davvero bene.

Così ha fatto Clementina quando nel pomeriggio ha deciso di recarsi in visita da una curandera. In compagnia delle figlie Josivel e Irlanda ha percorso un lungo tragitto, prima sulla camioneta di un conoscente, poi camminando in salita, attraversando campi di mais e di caffè. Durante il tragitto non si sono scambiate neppure una parola. Il problema riguarda la figlia più grande Irlanda. Da molti giorni rifiuta il cibo, è triste, avvilita, stanca. E ha sempre freddo ai piedi. Di notte li avvolge in una coperta di lana, ma continuano a rimanere gelidi ed al mattino fatica a camminare.

La casa della curandera si trova in cima ad un colle, una costruzione sbilenca di mattoni di fango sotto ad un grosso albero di avocado che estende i suoi alti e frondosi rami sul tetto di lamiera. Tutto intorno giacciono stuoie ricoperte da caffè pergamino (non ancora decorticato) ad asciugare al sole. In casa non c'è nessuno. Clementina nota la finestra della cucina chiusa, ma non assicurata, Maria Dolores probabilmente non tarderà. La donna e le due ragazzine siedono su un tronco in cortile e la attendono silenziose. 

Sul grosso ramo di aguacate compare vispo, uno scoiattolo grigio, poi un altro dotato di una folta coda rossa, guadano giù in direzione delle donne, girano, si arrampicano veloci senza distogliere lo sguardo, si fermano ancora, corrono via. Più giù, una farfalla blu, volteggia intorno ad una pianta di tabacco punteggiata di fiorellini rosa, poi si avvicina a Clementina, vola sopra la testa di Irlanda e davanti al viso ferito di Josivel, poi scompare mentre, con un evoluzione elegante, un avvoltoio bruno si lascia cadere dall'alto del cielo per arrivare a compiere un lento volo radente davanti all'abitazione, costeggiando con occhio vigile la facciata dell'abitazione per tutta la sua lunghezza.

Si dice che gli iatromanti amerindiani (ma sono sicuro che preferirete chiamarli sciamani...) siano in grado di proiettare una loro componente spirituale in diversi animali approfittando delle sembianze acquisite per aggirarsi curiosi ed anonimi nei paraggi (insomma da quelle parti, se vi entra un tacchino in soggiorno dovreste sempre essere in dubbio se si tratti veramente dell'animale che vedete oppure se siano le nuove fattezze assunte da vostra suocera per osservarvi da vicino). 

Più in basso, lungo un ripido sentiero che si intravede appena nell'ombra delle chiome ad ombrello dei huajiniquil, avanza una massa informe, lenta. Scompare fra gli alberi, poi, dopo qualche minuto, eccola riapparire nel cafetal fra foglie verdi e bacche rosse di caffè maturo. Curva, sotto il peso di un grosso sacco di caffè, Maria Dolores procede calma sino a raggiungere l'uscio di casa, poi lascia cadere pesantemente il fardello, alza la testa e la scuote lasciando cadere indietro le sue lunghe trecce annodate tra loro alle estremità da un nastro azzurro, sorride alle ospiti. I suoi piedi scalzi sono arcuati e callosi e conoscono il territorio circostante meglio di chiunque altro.

Si tratta del medesimo territorio in cui si appresta a viaggiare con Clementina e le sue figlie, senza però che nessuno apparentemente si muova dalle sedie poste di fonte all'altare predisposto per il rito, allestito con odorosa resina di copal, fiori freschi, uova di tacchino, colorate piume di pappagallo ed icone cattoliche, illuminato dalla sola luce di una fioca candela nell'oscurità della sera.

Maria Dolores divenne curandera a seguito di un evento improvviso e doloroso, quando sua figlia, di ritorno con secchi pieni d'acqua, in una giornata fredda e piovosa, fu preda di un attacco di febbre che la costrinse sofferente a letto e le rese il viso gonfio e rosso a tal punto che faticava anche a respirare. Quando tutto sembrava perduto suo marito le portò un morral (borsa a tracolla di fibra naturale) colmo di funghi raccolti in un pendio nebbioso poco lontano da casa. Dopo averne mangiati parecchi ed aver provato forte nausea e tremori alle gambe, fu trasportata repentinamente in una realtà meravigliosa, poi fu in grado di perlustrare il paesaggio in volo sino a giungere sulla fonte d'acqua dove sua figlia si era "spaventata". La vide. In preda al delirio continuò a pregare e disse a suo marito di recarsi in quel luogo e portare un'offerta. Furono depositati due semi di cacao ed un uovo di tacchino, la bimba guarì.

Ed è in questa zona intermedia popolata di esseri invisibili, ma reali, che si avventureranno le donne. Josivel beve l'acqua in cui sono stati in ammollo i funghi che Dolores, Clementina e Irlanda hanno ingerito. Stringono nel palmo della mano due semi di cacao a testa, serviranno per pagare l'accesso a quel mondo e, soprattutto, a garantirsi il ritorno.

Nella più completa oscurità, senza muoversi, percorrono un mondo a loro familiare, il territorio che abitano. Scendono da un sentiero conosciuto, salgono da un dirupo con difficoltà e si dirigono verso il Nindo Tokoxo, la montagna sacra in cui risiede il signore dell'abbondanza (il cui culto probabilmente iniziò con l'introduzione della coltivazione del caffè nella regione), pregano, lasciano un'offerta e si avviano verso ovest attraversando invisibili, le rumorose strade cittadine. All'estremo occidente del territorio c'è un luogo tetro, la caverna del Chato anche conosciuto come il Güero (chiaro, bianco) un’entità malvagia che in cambio delle facili ricchezze concesse è solito richiedere favori ben vergognosi (se siete dei coyotes oppure vi piace far soldi senza faticare troppo guardatevi le spalle, il Chato arriva sempre da dietro, è una metafora: ci siamo intesi?). 

Dolores siede composta, perlopiù immobile, ma talvolta si agita, fa domande a Clementina e ogni tanto parla anche con spiriti ed altre entità invisibili che le appaiono durante il cammino rendendo estremamente faticoso il procedere. Spossate, dopo ore, raggiungono, attraverso una rete di sentieri boscosi accidentati, la località di Ayautla. 

In un dirupo, forzatamente accovacciata, all'interno di una grossa olla in terracotta si trova Irlanda con i piedi legati da robuste corde immersi in acqua gelida fino alle caviglie. E' intrappolata. Ad Irlanda viene dato del miele per ridurre l'intensità del viaggio, le giunture di braccia e gambe sono strofinate con un trito di foglie di tabacco fresco tritato, per proteggerla. Ora le donne pregano incessantemente ad alta voce mentre la ragazza osserva le sue gambe riempirsi di vermi. Dolores richiede l'assistenza di alcune entità amiche per riuscire a liberarla e continua a pregare, anche in lingue sconosciute. Ce la fanno. Poco dopo, ripiegata sulla sua sedia, immobile, Irlanda appare esausta e sudata, ma è salva. 

Fuori è buio, tutt'intorno è buio, ma l'oscurità notturna d'improvviso si è dissipata, illuminata dal linguaggio sapiente dei funghi. La terra e gli alberi respirano di giallo, di verde e di viola, come l'acqua.

mercoledì 31 ottobre 2012

Catena alimentare cosmica


Dopo aver preparato il pranzo per la famiglia Mariana si appresta ad appendere sull'uscio di casa una jícara di atole ed un grosso pane di maíz ripieno delle zampe e della testa di una gallina sacrificata all'alba. Questa sera accenderà una candela che illuminerà l'offerta per renderla visibile anche nell'oscurità notturna, per le anime e gli spiriti che se ne vorranno cibare. Nella Mesoamerica indigena non c'è banchetto al quale non siano invitate anche le divinità (e i poveri vagabondi etnografi che vengono invitati e nutriti più che altro per senso di pietà e compassione).

Mariana ha un'anima.

No, non nel senso che è buona e sensibile ma, come succede per gli altri indios, è stata indotta a credere di averne una dai missionari. E dire che non fu una decisione semplice.

Le autorità ecclesiastiche giunte in quelle terre, si impegnarono in consistenti disquisizioni teologiche prima di poter definitivamente attribuire agli amerindi caratteristiche diverse da quelle degli animali selvatici. A difesa degli indios si schierò il vescovo Bartolomé de Las Casas che si oppose alle tesi di coloro che continuavano a ritenere evidente la loro natura bestiale. Grazie a lui fu addirittura messo in discussione il sistema coloniale di encomienda (che nonostante fosse formalmente vietato dalla Corona era comunque largamente in uso in tutte le terre coloniali) e, con esso, la riduzione in schiavitù delle popolazioni native (Las Casas argomentò che per quello c'erano già i negri africani, indiscutibilmente nati per essere impiegati come bestie da soma).

Attribuire a quegli indios disperati il possesso dell'anima, fu di fatto una concessione molto generosa, dettata dall'infinita bontà cristiana dei religiosi oltre che da alcuni loro interessi particolari. Infatti una volta fatta di quella massa di selvaggi degli esseri degni dell'appellativo umano si creò una splendida occasione di lavoro per le missioni ecclesiastiche, visto che quella nuova dotazione animica aveva creato ipso facto una popolazione da educare ad una pedagogia universale nel nome del dio cristiano. In realtà per gli indios, questo dono (avvelenato come molti altri regali cristiani), non rappresentò che una riduzione delle loro facoltà spirituali dal momento che di anime ne possedevano già in buon numero prima dell'avvento di questa nuova divinità con i suoi missionari. Ed erano molto funzionali, visto che nella raffinata concezione della personalità in cui erano collocate, alcune di queste avevano anche facoltà di abbandonare il corpo per prendere le sembianze di animali o viaggiare nella dimensione parallela per assolvere a scopi divinatori e di cura.

Si trattò in sostanza di un'abile operazione di marketing religioso, simile a quelle che fanno certe agenzie finanziarie (infami) che raccolgono i tuoi numerosi debiti in uno solo che devi poi restituire con pesantissime rate peraltro poco (per nulla) convenienti. Ecco, gli indios mesoamericani stanno ancora pagando rate con interessi da usuraio per quell'anima e non ci sarà tribunale divino abbastanza giusto e potente da poterli risarcire delle ingiustizie subite che si sono spinte fino alla colonizzazione dei loro corpi, del loro immaginario e dei loro sogni. Ma c'è di più. Quell'unica anima con la quale dovettero iniziare giocoforza a familiarizzare era anche imperfetta per definizione. Era infatti macchiata da un fantomatico peccato originale dovuto alla trasgressione iniziale di due buontemponi della religione che nel mito cosmogonico ebbero il merito di procurare quell'ira divina che originò la radice di ogni sofferenza umana. Impararono anche che quel dio non solo era potentissimo, ma anche molto irascibile e incredibilmente severo visto che al confronto, per aver rubato solo un frutto, le loro divinità si sarebbero limitate ad un castigo ben più lieve, una diarrea durante la notte, per esempio.

L'idea del peccato non fa dunque parte della concezione originaria amerindiana, non c'è trasgressione che possa incrinare il rapporto schietto con le proprie divinità. Il rapporto è interamente basato sulla reciprocità (dare, ricevere e contraccambiare, insomma qualcuno deve sempre risultare in debito). Se da un lato gli umani ricevono salute, protezione e prosperità, dall'altro le divinità ottengono cure ed attenzioni cerimoniali. Dopotutto Marcel Mauss vide nelle pratiche sacrificali primitive le origini del dono e dello scambio che custodivano in sé i germogli delle più moderne forme di contratto (ma diffidate di Marcel riguardo a quest'ultima affermazione giacché pare che avesse ereditato dallo zio una terribile forma di evoluzionismo che lo faceva sragionare). Più che macchiati dal peccato dunque gli indios sarebbero perennemente indebitati (come del resto lo sono tutti i poveri del mondo ...).

In un mito mazateco si racconta di un originario gruppo di uomini piuttosto trasandato, affamato ed afflitto.
La terra, troppo molle per essere lavorata, non permetteva loro di costruire le proprie abitazioni ed ogni volta che tentavano di solcarla per seminare, il sangue iniziava a sgorgare come da una profonda ferita. Dovettero chiedere aiuto alle formiche che li ospitarono gentilmente nei loro formicai (sono troppo ospitali le formiche, come del resto lo sono i greci o i marchigiani o gli scandinavi, insomma tutti quelli che abitano in qualsiasi posto dove si va in vacanza).

I membri più anziani di quel derelitto gruppo uscirono dai formicai per comunicare con il Sole il quale si fece autorevole portavoce della supplica umana riportandola direttamente alla Terra dicendole: "Terra, collabora, torna ad indurirti e permetti agli esseri umani di ferirti creando solchi per depositare le sementi, consenti loro di nascere, crescere e prosperare, lascia che mangino i tuoi frutti e che piscino e caghino su di te innumerevoli volte poi, alla fine della loro esistenza, prenditeli, cibatene, perché gli uomini sono tuoi: nutrili, e ti nutriranno". Ebbe origine la morte, il debito umano nei confronti degli déi.

Le offerte di cibo alle divinità dunque altro non sarebbero che piccole rate di quel debito contratto dagli uomini con le forze fantasmatiche che hanno concesso loro l'esistenza, il cui saldo arriverà solo al momento della morte. Gli déi sono quindi sempre molto affamati e le offerte sono una sorta di aperitivo in vista del banchetto finale quando, infine, si divoreranno ogni singolo essere umano. Non a caso molti termini linguistici amerindiani impiegati per indicare le offerte fatte alle divinità hanno il significato di "sostituto" (nel senso che sostituiscono momentaneamente la vera offerta, quella finale, la vita umana). Questo diventa ancor più tragicamente reale quando ad essere offerto è direttamente il corpo umano, un pezzo per volta. Se fate un giro intorno al lago Turkana noterete esseri derelitti con orecchie mozzate nella parte superiore, la prima parte del corpo ad essere sacrificata per supplicare che la sventura si plachi su di loro o sulla loro famiglia (pare che anche durante il Paleolitico fosse usuale sacrificare ritualmente alle divinità la falange del dito di una mano, c'è un brano bellissimo al riguardo in apertura di un capitolo nella Danza della Tigre di Kurtén Björn).

Ricapitolando, gli ordini più bassi di animali si cibano di vegetali e non disdegnano di mangiarsi tra loro e, congiuntamente, costituiscono il nutrimento per gli esseri umani che, oltre a saper essere cannibali, a loro volta nutriranno gli déi, dopo averli omaggiati in vita con offerte sostitutive. Ma sempre per via della reciprocità di cui si diceva prima o per la connaturata tracotanza del genere umano gli uomini ambiscono anche a mangiarsi le divinità (questo però succede soltanto nei gradi più infimi e selvaggi dello sviluppo religioso).

Gli Aztechi creavano figure di divinità con semi di amaranto e se le divoravano durante le festività a loro dedicate (se andate nella metropolitana di Città del Messico potrete fare la medesima esperienza comprando delle barrette di alegría, anche se la forma usuale è tonda oppure squadrata e non assomiglia affatto a Hitzilopochtli o Tezcatlipoca). 

Il corpo di Cristo è invece cibo sacro per zelanti cristiani di tutto il mondo. I mazatechi, sempre estremamente creativi, hanno sostituito la classica ostia cristiana consacrata, bianca e tonda, con dei funghetti allucinogeni color crema che consumano fin dall'epoca preispanica conferendo loro un nuovo valore eucaristico (c'è gente pronta a scommettere che in quell'eucarestia ci sia molto più dio di quanto non ve ne sia in quella che viene consumata la domenica a messa).

Insomma, se tutti mangiano tutti, ognuno è preda e presto o tardi verrà mangiato da qualcosa o qualcuno, non c'è via di fuga. 

Ci pensavo durante una visita al santuario d'Oropa guardando dentro alla nicchia che custodisce la scultura lignea della madonna a cui è dedicato il santuario. Cosa penserebbero i biellesi se sapessero che dietro quello sguardo benevolo e materno se ne nascondesse uno bramoso e famelico (non fosse perché sospettoso che gli uomini vorranno torturare ed uccidere il frutto del suo seno per poi ricordarlo mangiandone simbolicamente il corpo e bevendone avidamente il sangue come fanno periodicamente vicino all'altare proprio sotto ai suoi occhi).

Probabilmente scopriranno al momento dovuto il motivo per il quale il suo volto è nero, nero come la terra.

venerdì 21 settembre 2012

Il mayordomo


Livida ed esanime, appoggiata mollemente su di un grosso ceppo dalla sera precedente, la testa del maiale iniziava ad essere percorsa da grosse formiche che, dal suolo, la raggiungevano incolonnate, pacificamente voraci. Il sangue raggrumato sotto l'occhio era divenuto un banchetto per un paio di mosche che brillavano di verde e blu, riflettendo il primo chiarore del mattino, setacciato dalle ampie fessure visibili tra i piccoli tronchi di cui erano fatte le pareti della casa di Serapio. Anche la ghirlanda di fiori che l'agghindava stava perdendo la turgida freschezza tropicale, esibita il giorno precedente durante i festeggiamenti.

Quando il pick-up rosso, fumoso, scassato e molto rumoroso, arrivò al villaggio, quattro uomini balzarono giù dal cassone e, con un portamento orgoglioso tipicamente mestizo, si diressero con la testa dell'animale verso un gruppo di abitazioni isolate. Serapio e la moglie non si emozionarono, rimasero impassibili, alla maniera india, tragica, scrutando la scena dietro uno sguardo freddo e distaccato (tutto già visto insomma, assolutamente ovvio). Offrirono ai forestieri atole de maíz, un cartone di birre ed alcuni tamales avvolti in foglie di banano, scambiarono solo poche parole.

Da quando Serapio era riuscito ad emancipare il proprio nucleo famigliare dall'economia di sussistenza (piegare la schiena sulla terra ripulendola dagli arbusti con il machete per prepararla alla semina, sperando di non essere morsi da un serpente), ai cui stenti erano invece ancora legate tutte le altre famiglie del piccolo villaggio, il suo prestigio aumentò a dismisura. E con esso la sua arroganza. Il suo atteggiamento divenne sempre più autoritario e svilente nei confronti dei membri della sua comunità rurale, fondata cinquant'anni prima da suo padre quando decise di spingersi nel fitto della selva yucateca per giungere le sponde di una silenziosa laguna, alla ricerca di alberi per estrarre il chicle (quando masticate i chicles, state parlando maya, non inglese...). Ormai insofferente verso la vita rurale, era solito recarsi sempre più assiduamente in una vicina cittadina, che raggiungeva periodicamente in autobus generalmente insieme ai due figli più grandi. L'entrata nell'economia monetaria si manifestò poi, con un accumulo di beni materiali da esibire nelle relazioni sociali. Biciclette ed orologi apparirono per la prima volta nel villaggio sulla laguna.
E con essi apparve anche la birra (Miracolo? No, disgrazia).

Ma il simbolo più autentico dell'agognata mobilità sociale raggiunta da Serapio era da cercare in un acquisto fatto nella vicina Chemax, autentica capitale indigena della regione maya. Si trattava di una casa "vera", in mattoni di cemento, anche se dalla porta sul retro si poteva accedere ad un ambiente costruito in maniera tradizionale, con piccoli tronchi di legno duro schierati ad ellisse e coperti da un tetto di foglie di palma con tre grosse pietre adagiate a triangolo sul pavimento di terra battuta per permettere alla moglie, alle figlie ed alle nuore di allestire un fuoco per cucinare. Per Serapio, dare maggior libertà alle donne di casa significava costruire per loro una cucina più ampia e confortevole (l'amore è un'ideologia che funziona secondo le logiche della divisione sessuale del lavoro).

Io stesso divenni parte del corredo simbolico della famiglia quando mi invitarono presso la loro nuova abitazione urbana con il solo scopo di passeggiare per le strade cittadine esibendo la compagnia di uno straniero bianco (fate la riverenza), un investimento in immagine a lor dire preziosissimo.
Diversamente, molto diversamente, i bimbi del villaggio mi chiamavano zotz, pipistrello, per la mia pelosità che appariva eccessiva (affettuosa ripugnanza) agli occhi di futuri uomini glabri.

A ciascuno di loro sarebbe potuto accadere un giorno di trovare fuori dalla porta di casa una testa di maiale. Un atto simbolico che rappresenta un'investitura di grande responsabilità in quanto assegna il ruolo di mayordomo. Uno scalino fondamentale da percorrere nella scalata al sistema di cariche civico-religiose locali. In gioco c'è la cosa più preziosa per l'essere umano: il prestigio (la salute è la soluzione di ripiego per coloro che il prestigio non se lo possono permettere).

Pensate al sistema delle caste indiane ed al lignaggio africano ed avrete l'idea dell'importanza simbolica e sociale del sistema de cargo mesoamericano.

Il mayordomo designato ha un anno di tempo per organizzare una festa per l'intera cittadina facendosi carico personalmente di ogni onere e spesa. Di contro, il prestigio raccolto dalla buona riuscita del grande evento costituirà un onore per l'intera famiglia che si conserverà per diverse generazioni. Anche il santo patrono saprà essergli grato (possiamo starne certi). In passato non accettare l'incarico avrebbe portato dritti al carcere oltre a dover subire il ben più penalizzante (e paralizzante) discredito sociale.

Per alcuni studiosi queste feste hanno la funzione di redistribuire le ricchezze economiche e proteiche attraverso l'allestimento di sontuosi banchetti e lascivi divertimenti, livellando così le differenze esistenti.

Quando Serapio decise di avvalersi della collaborazione di altre persone per fronteggiare l'enorme costo dell'organizzazione di cui si doveva far carico, si recò presso una piccola casa di cemento rosa piuttosto malandata all'entrata del paese. Dopo aver scostato il lenzuolo che pendeva sull'uscio sentì l'intenso profumo delle bucce dei mandarini ammucchiate sul pavimento in mezzo ad un gruppo di uomini che, seduti ciascuno su di un cartone di birre, bevevano e mangiavano frutta (diciamo che bevevano più che altro).

Fu accolto con abbracci e grandi pacche sulle spalle. Serapio e i due figli si unirono al gruppo e continuarono a bere birra e sbucciare mandarini sino a quando non fu completato "il giro" ovvero quando ciascuno dei presenti non avesse pagato una birra a tutti gli altri (il trionfo della reciprocità). Erano in tredici, parlarono di tori, maiali, birre e puttane (ma di quest'ultimo argomento soltanto dopo la decima birra, i mandarini erano finiti, ma nessuno se ne curò).

Fu il primo di diversi incontri. La base logistica era posta nella nuova casa. Una scatola di cemento blu, senza troppe pretese, ma appena ridipinta, con due piccole finestre ai lati ed una porta al centro, blu anch'essa. Di fronte, separata da una strada polverosa, l'abitazione dell'imbianchino, una sorta di colorificio alla buona, sulla cui parete esterna campeggiava la seguente scritta pubblicitaria: Se pintan las casas de todos los colores, amarillo también (Si pitturano le case di ogni colore, anche giallo).

Come, anche giallo?!? Anche giallo? Sì, anche giallo. (Mah!).

Entrando nella casa di Serapio, sulla parte sinistra dell'unico spazio, pendevano delle amache colorate fissate a ganci di metallo cromati; la porta aperta sul retro lasciava intravedere la cucina dove le donne avevano già acceso il fuoco a legna per preparare le tortillas sul comal. Quando il fumo filtrava in casa, tagliava il respiro e faceva lacrimare gli occhi. Sulla destra, in un angolo, si stagliava, incredibile e solitario, un frigorifero enorme, nuovo, con doppia porta, metallizzato e luccicante. Nell'altro angolo, una grossa cassa di legno reggeva un televisore immenso, nero, con la pellicola sullo schermo ancora da rimuovere.

Gli elettrodomestici costituivano una novità per la famiglia di Serapio visto che il villaggio da cui provenivano non era raggiunto dalla rete elettrica (e, oltre alla luce, mancavano anche l'acqua intubata e le fogne, ma la chiesa sì, quella c'era, bontà divina).

Pensai alla straordinaria opportunità che gli si presentava, poter conservare gli alimenti senza doverli necessariamente affumicare sulla parete di tronchi prospiciente il fuoco. Ma mi sbagliavo, non solo perché le zampe di maiale e le pannocchie continuavano a penzolare annerite dal fumo dietro al fuoco della cucina, ma perché quando il frigo fu aperto mi resi conto che non ci sarebbe stato spazio per introdurre alcunché, neanche una sottiletta, talmente era pieno e stipato fino all'inverosimile, di bottiglie di Coca-Cola (!). Una quantità incredibile di bibite ghiacciate. Ed era importante che fossero davvero molto fredde giacché non erano lì in previsione di una festa imminente, ma avrebbero dovuto assolvere ad una funzione terapeutica. Sì, una cura prodigiosa per i maschi adulti della famiglia di ritorno dai bagordi cittadini. Per curare la cruda infatti (ovvero i postumi di una sbronza), disturbo classificato come caldo, dalla tassonomia medica amerindiana (giacché caldo è l'elemento che l'ha causato: l'alcol), è necessario un rimedio freddo (et voilà, voi non tenete alcune medicine in frigo?).

Ma il meglio in assoluto fu quando, per la prima volta, fu acceso il televisore. Ad ogni gesto per cercare di metterlo in funzione ero osservato in cerca di un cenno di approvazione. Si accese. L'unico canale visibile trasmetteva un film in bianco e nero con Pedro Infante, un attore e cantante messicano molto famoso. Sedie e sedili di legno furono radunati affinché tutti prendessero posto (donne escluse, loro potevano soltanto sbirciare dalla cucina). Il film non era male, alcune battute ironiche erano forse un po' fuori dalla portata di persone che avevano passato l'esistenza a coltivare campi di maíz dialogando con spiriti che evidentemente non hanno nel sarcasmo la loro miglior virtù.

Gli sguardi erano talmente presi e rapiti dalle immagini sullo schermo che ci si scordò di respirare. Per lunghi minuti il film scorse con colpi di scena continui, senza però destare la più piccola reazione del ristretto pubblico, muto, letteralmente in apnea.

Poi, all'improvviso, in una scena di transizione, apparve un poliziotto su di una moto, disse qualcosa ad un personaggio in strada e si allontanò con un rombo del motore che continuò a far da sottofondo ad una lunga soggettiva dell'agente seduto di profilo alla guida del veicolo. Delirio. Incredibile delirio.

Una risata collettiva e fragorosa squarciò la stanza, proseguì fra il rumore di sedie che cadevano sul pavimento e terminò a stento soltanto dopo alcuni minuti di indicibile subbuglio, con i figli più grandi di Serapio addirittura stesi a terra dal ridere, indicando lo schermo, presi da spasmi incontrollabili.

L'attacco di ilarità scemò e la scena degli spettatori si ricompose quando il film fu interrotto dalla pubblicità. Gli sguardi furono nuovamente rapiti da altre immagini a colori, sensazionali. Un grosso elefante colorato danzava intorno a bambini felici in un prato di montagna e dopo un balletto surreale finì per tuffarsi in un sacchetto di caramelle con altri animali, un trionfo. Poi cambiò lo spot, un uomo semi-nudo si rasava la barba guardandosi allo specchio (i maya sono generalmente glabri, non possiedono barba, ma soltanto un accenno di baffi) mentre da dietro, una figura femminile con mani affusolate e lunghe unghie rosse gli cingeva il petto e ad ogni passata di rasoio il risciacquo proveniva fresco dalla derapata di uno sportivo sugli sci d'acqua che, dall'interno dello specchio, creava un'onda che andava a spazzare il viso di quell'uomo che ora appariva completamente rasato e luminoso. Pazzesco. Insensato.

Fu davvero troppo, anche le donne emersero con lo sguardo fisso dalla cucina e improvvisamente compresero anche la lingua spagnola che prima affermavano di non conoscere, si avvicinarono camminando meccanicamente e tutti erano attoniti e stupefatti, e muti, e nessuno sapeva più cosa dire o cosa fare, era davvero troppo, anche per me lo era.

Se avessi guardato fuori dalla finestra avrei probabilmente potuto vedere dei galeoni spagnoli ormeggiati all'orizzonte oppure le insegne di un nuovo centro commerciale Wal-Mart.

Rimasi lì, silenzioso, ad osservare un teatro di antropologie in atto, una performance collettiva  in cui ciascuno cercava di colmare di senso, lo spazio immaginario che lo separava dall'Altro, come in un gioco di specchi infinito.

Stavo scoprendo l'America? Avevo urgente bisogno di rileggere Todorov, e anche di bere qualcosa di fresco, una birra, o una bibita meglio, non so, pensavo ad una Pepsi, per esempio.


martedì 19 giugno 2012

Temazcal


Fu quando mi trovai con la faccia a terra, nel disperato (quanto inutile) tentativo di respirare, nudo, grondante di sudore e calpestato da piedi zozzi di terra, che iniziai a pentirmi di aver accettato l'invito di José e Horacio.

Nell'oscurità più assoluta, fra canti, pianti e preghiere, con la mia guancia premuta sul tappeto di foglie bagnate dal vapore bollente, mi dovetti altresì convincere della fondatezza di alcune critiche metodologiche all'osservazione partecipante. Avrei forse dovuto scegliere la via più sobria degli storici della religione, ad esempio, che studiano i rituali degli Altri senza dovervi per forza partecipare o doversi sorbire bevande nauseabonde di ogni tipo.

Nell'angusto e buio anfratto in cui le pietre arroventate da un fuoco vivo sprigionavano caldo e odoroso vapore ogni volta che José vi gettava sopra acqua fresca, avrei dovuto ritrovare l'equilibrio perduto con il cosmo e con me stesso, insomma guarire. Fu una sofferenza indicibile. Quando giunsi all'estremo grado di sopportazione cercai una via di fuga nell'oscurità trovando solo altri corpi disperati e sudati. Era chiaro, sarei soffocato come un topo in trappola. 

Ho creduto sinceramente di morire e invece, ... stavo per nascere.

Entrò un bagliore di luce quando fu scostata la spessa cortina che chiudeva il pertugio d'ingresso e, uscendo carponi all'esterno, bagnato e sporco, potei apprezzare il primo fresco respiro poi, avvolto in una calda coperta di lana, fui trasportato a braccia su di un'amaca silenziosamente dondolante. Dondolai.

E dire che quando conobbi lo sciamano metropolitano ed il suo aiutante Horacio sull'aereo che ci avrebbe portato da Madrid a Città del Messico, mi erano sembrati persone per bene. Erano di ritorno da un convegno sulle medicine tradizionali tenuto in Francia. Mi appuntai l'indirizzo al quale mi sarei dovuto recare per andarli a trovare, sul retro della copertina di Tristes Tropiques che stavo rileggendo per la seconda volta (i libri non cambiano mai, ma noi talvolta sì, e allora ogni tanto bisogna tornarci sopra).

Quando scesi dal pesero (a città del Messico ci sono numerosi peseros e peseras, due diversi tipi di furgoncini che trasportano passeggeri in ogni angolo della città, ma non ho mai capito cosa ne determini il sesso), mi trovai in una delle zone più malfamate della città; percorsi tre cuadras poi una lunga discesa e giunsi alla casa rosa che dovevo trovare. José fu contento di vedermi (probabilmente come il boia quando vede la vittima salire le scale del patibolo). Uscimmo dalla porta sul retro del cortile per raccogliere delle erbe. Seguimmo conversando i binari morti di una linea ormai in disuso dietro a baracche trasandate e raccogliemmo erbacce e foglie polverose. Le avrebbero poi impiegate per l'allestimento del Temazcal, il bagno di vapore costruito con adobes, mattoni di fango essiccati al sole.

Quando mi dissero che per partecipare al bagno di vapore rituale avrei dovuto sottopormi ad un massaggio prima, e ad una limpia (rituale lustrale di purificazione) poi, iniziai a rilassarmi immaginandomi gli effetti benefici di una salus per aquam (spa) con massaggio e sauna. Solo che la purificazione non sarebbe stata quella dell'organismo, attraverso l'assunzione di verdure ed acqua, ma quella dello spirito, ripulito dall'azione dei malos vientos (è solo un pour parler, non fidatevi affatto del dualismo cartesiano). Perfetto.

Cambiai radicalmente idea quando le nocche nodose di José ed Horacio a turno, iniziarono a torturarmi le carni dei muscoli e poi dolorosamente a schiacciarmi le tempie e le costole ed il dolore della pratica era talmente forte che ormai si erano divisi i compiti, uno mi teneva fermo e l'altro mi percuoteva senza pietà adducendo che il mio organismo era avvelenato dal consumo di farine raffinate di frumento (pane e pasta). Un pestaggio orribile. Non era esattamente questo il contatto interumano che mi ero immaginato sentendo parlare di antico rapporto pragmatico fra medico e paziente.

Non vi è dubbio che nelle medicine tradizionali l'orientamento pragmatico di tale rapporto, che lo rende molto più spontaneo, pratico e concreto, svela per contrasto quell'allontanamento tecnologico che ebbe inizio nella medicina moderna con l'invenzione dello stetoscopio di legno che doveva servire per auscultare il cuore del paziente senza dover appoggiare direttamente l'orecchio sul suo petto. La clinica antica prevedeva infatti un intenso contatto corporeo (che arrivò a prevedere anche l'assaggio delle urine e le analisi olfattive di alito e feci configurate in una teoria umorale dell'equilibrio corporeo) prima che iniziasse quel lento ma inesorabile distacco dovuto all'aumento di quei requisiti tecnici che portarono il dottore ad un progressivo allontanamento dal corpo del paziente con il risultato che le cure iniziarono a spostarsi dai malati verso le malattie (pensate ai macchinari diagnostici odierni).

Alla base del sistema medico mesoamericano sta la suddivisione di ogni elemento del cosmo, ma anche di ogni malanno e di ogni rimedio, nelle categorie contrapposte del caldo e del freddo. Ma non è una questione di temperatura in senso stretto, la febbre ad esempio pur generando calore, è classificata come un elemento freddo (causa brividi) e deve essere curata attraverso un rimedio di carattere opposto, caldo. Tale tassonomia attribuisce generalmente caratteristiche fredde alle malattie che si credono provenire dal mondo dei morti mentre quelle calde avrebbero la loro origine in cielo. Ecco spiegato il caldo infernale del bagno di vapore al quale ricorrono soprattutto le puerpere (ma non solo) per curare ogni genere di malessere e riprendersi dalle fatiche del parto.

Niente di nuovo, il sistema biomedico occidentale si fonda sostanzialmente sul medesimo principio di base dettato a suo tempo da Galeno: contraria contrariis curantur (si curino i contrari con i contrari). Dopo la più classica azione oppositiva fra gli "elementi", furono poi i farmaci ad agire in contrasto agli agenti patogeni seguendo comunque il medesimo percorso teorico di efficacia medica.
Fu Paracelso ad introdurre nel pensiero moderno una nuova visione: "nessuna malattia calda fu mai risanata con mezzi freddi né mai alcuna fredda fu risanata coi caldi". Similia similibus curantur (o qualcosa del genere). Rovesciamento metodologico: è il simile a dover curare il simile, disse. Forse intendeva che i poveracci debbono essere curati da altri poveracci?. No, era nato il principio omeopatico. Su cui si basa il vaccino ad esempio, che prende il suo nome proprio dalle vacche, visto che ebbe origine quando per combattere il vaiolo umano si usava inoculare preventivamente il vaiolo bovino che, trasferito dall'animale all'uomo, provocava in quest'ultimo una malattia attenuata che però impediva al vaiolo umano di attecchire e svilupparsi.

Nel frattempo attendevo il mio turno per essere sottoposto al rituale della limpia, quando si presentò Horacio che mi comunicò con un velo di tristezza che non avrei potuto suonare il tamburo con tutti gli altri alla fine dell'incontro (il mio livello di purificazione non era ancora completo, disse. Decisi di non accoltellare quel povero ciarlatano, lo riparmiai). Non me ne importava più di niente, del resto ero impegnato nella ricerca di un nuovo equilibrio, ero appena ritornato al mondo, or ora uscito dalla capanna cosmica, dal ventre caldo, umido e caotico della madre terra per avere la possibilità di ricreare un nuovo ordine personale e sociale nel quale agire e rispetto al quale mi trovavo a riflettere dondolando sull'amaca (scusate la sciocca deriva new age).

Mi rassegnai (dico per il fatto del tamburo), lo interpretai come l'esito dell'incontro inevitabile col destino (iniziavo a familiarizzare con lo spirito tragico indigeno) e lo valutai come un male assai minore rispetto alla possibile prescrizione medica del raddrizzamento dell'ugola con intervento diretto di un dito in gola prima intinto in chissà quali sostanze schifose (rimedio spesso utilizzato per contrastare gli effetti di uno "spavento") oppure del ricorso eventuale alle pelotillas le cui proprietà terapeutiche sono per ora soltanto "supposte" (e ci siamo capiti).

[rileggendo una pagina di diario...]

venerdì 27 aprile 2012

La cultura è magica...


"Quando Nieves mette il vestito nahuatl non è più la stessa".

Peccato, perché lei è davvero bellissima nei suoi lineamenti amerindi e si fatica a pensarla diversa da com'è.

Lei stessa ritiene di esprimere la sua cultura più autentica (quella ereditata dagli antichi aztechi, nella sua personale visione) quando recita poesie in lingua nahuatl davanti a un uditorio attento e festante (?). Per lei la cultura è un bagaglio che ha ricevuto in eredità dai suoi ascendenti. Mi ha guardato con sospetto quando le ho detto che a mio avviso non aveva bisogno di vestire un huipil azteca per esprimere la sua identità e la sua cultura, poi, il suo sguardo è divenuto comprensibilmente orrido quando le ho confidato che, dalla mia prospettiva, pur essendo lei, quel giorno, vestita semplicemente con jeans e maglietta, potevo apprezzare "l'autenticità" culturale dei suoi huaraches (sandali di cuoio) ancora sporchi di fango che, pur muti, raccontavano della sua vita di campo, da contadina alle prese con comuni problemi di ejido (gli ejidos, in Messico, sono terre di proprietà statale concesse ad uso comune a comunità di indios).

Quando Kroeber e Kluckhohn si chiesero cosa fosse la cultura compilarono un elenco di oltre centosessanta definizioni ed altri loro colleghi, in seguito, conclusero che con tutta probabilità, la cultura, così come l'avevano definita gli antropologi fino a quel momento, nemmeno esiste, è un'invenzione.

Forse, la cultura è magica.

Se cerchi di definirla, scompare. Se cerchi di conservarla, come una strega si trasforma in qualcosa di diverso (ideologia per esempio, o folklore, o un tacchino) .


Si tratta di un processo spontaneo e, come tale, la cultura, non ammette alcuna riflessione su di sé, è uno specchio fumante di ossidiana, come quello stretto tra le mani di Tezcatlipoca di cui la divinità si serve per uccidere i nemici.

Quando gli sciamani mazatechi vollero conservare la pratica di ingestione dei funghi allucinogeni, dei quali si servivano per scopi di cura (sono perennemente malati, poveracci) e per viaggiare verso la dimensione parallela, non sfilarono in parate colorate e festose con vessilli a forma di fungo davanti ad un pubblico plaudente e pagante. Fecero finta di niente e, nottetempo, continuarono a divinare, proiettando le loro anime in un mondo ancora non colonizzato dalle croci di chi voleva trasformarli da animali liberi in uomini schiavi (per il loro bene, si intende).

La pratica si è conservata sino ad oggi (pur mutando come ogni cosa muta, questo è un dogma) proprio perché non vi è mai stata la volontà esplicita di farlo. Si è conservata come spazio di resistenza culturale spontaneamente sottratto (finché si è potuto) allo sguardo di una divinità più potente (sono stati quegli spioni dei frati e dei catechisti a rivelarglielo, ne sono sicuro).

Coloro che si dedicano alla conservazione ed alla patrimonializzazione della cultura potrebbero trarre il suggerimento che la miglior conservazione è proprio quella incosciente (apprezzare il gioco di significati tra non consapevole e non responsabile), ovvero quella nascosta nelle pieghe della pratica? Forse si, ma rimarrebbero senza lavoro, dunque no.

Sono convinto che le culture siano sì, da documentare (soprattutto per dare lavoro agli antropologi), ma conservare per conservare e patrimonializzare per patrimonializzare, senza avere un piano adeguato sull'impiego della documentazione prodotta, non significa forse fare il gioco della globalizzazione che altro non desidera se non musei etnografici da visitare più che curarsi realmente della condizione delle culture che vengono studiate?

Opporsi ideologicamente alla conquista non significa forse costruire spazi operativi di controcultura, fare cultura, anche attraverso l'impiego attivo della documentazione culturale?

Nessun timore, anche in caso di risposta affermativa, non servirà a nulla.


Poi viene in mente che quando un gruppo di intellettuali italiani del quindicesimo secolo si proposero di tornare agli antichi fasti, reinventando le loro tradizioni del passato, con propositi all'epoca probabilmente risibili (tipo costruire le chiese in stile classico) diedero origine semplicemente al Rinascimento. Ma, agli europei riesce sempre tutto meglio? Quindi il ritorno al passato delle culture Altre è sempre e solo segno di decadimento culturale?

Le teorie confliggono.

Io sono dell'idea che, per documentare, conservare e patrimonializzare (tutte pratiche di grande spessore ideologico), si debba fare come hanno fatto gli sciamani mazatechi.

Ma saremo ancora capaci di trasformarci (come gli sciamani o come Nieves, o come le culture, o come le teorie antropologiche)?

Nell'incertezza complessiva mi aggrappo a due punti fermi fissati da Marshall Sahlins rispetto all'antropologia nel lungo periodo:

"uno: gli antropologi di oggi saranno tutti morti, due: avranno tutti torto".

martedì 21 febbraio 2012

Il negrètto


Avvertenza: leggere il seguente post con accento o cadenza milanese, altrimenti non è lo stesso, mi raccomando...

L'amico di Mario sta per andare in pensione. Suo figlio non se la sente di continuare la sua attività, troppo impegnativo, così l'agenzia di assicurazione viene venduta e, con il ricavato, l'amico di Mario, se ne va a vivere in Kenya. Ma, a sorpresa, il figlio lo vuole seguire. Non era previsto. Il padre comunque acconsente, è pur sempre il suo papà.

Ora però, bisogna sistemare il figlio. Allora il padre, dopo aver costruito una villa per sé, costruisce tre bungalows per lui, da affittare ai turisti. La rendita permetterà al figlio di vivere con stile e magari, di trovare moglie.

L'amico di Mario vive ora in una bella villa, si sveglia presto al mattino, legge il giornale, guarda la tv. Insomma fa tutto quello che avrebbe fatto a Milano. Se ne accorge, un po' si annoia. Ha bisogno di nuovi stimoli.

Decide allora di dedicarsi alla pesca, compra una barca e l'attrezzatura necessaria. Poi prende a servizio un negrètto (vezzeggiativo che sgorga spontaneo direttamente dalla sua nobiltà d'animo) per farsi aiutare nell'attività. Il negretto ha il compito di preparare la barca e l'attrezzatura prima di uscire in mare e di ripulire ed ordinare tutto quanto una volta fatto ritorno sulla spiaggia. Diventano una squadra formidabile, tornano sempre con le reti colme.

Il negretto non percepisce alcun salario, del resto la bontà d'animo del signore milanese non arriverebbe mai a svilire un così bel rapporto con dello sciocco ed infimo denaro. Ma quando tornano dalla battuta di pesca l'amico di Mario, dopo aver scelto tutto il pescato migliore, per generosità, lascia al negretto tutto il resto: pesci martello, razze ed altri scarti (un signore).

"Dovreste vedere che bello quando tutte le donne con i vestiti colorati accorrono e si avvicinano al negretto per acquistare quei pesci per pochi soldi. Una scena d'altri tempi. Però.., come questa gente si accontenta di poco... Dovremmo imparare da loro, sempre con il sorriso..., nonostante tutto"
(certo che la moglie dell'amico di Mario si esprime con un eleganza e con una delicatezza davvero ineguagliabili, magari manca di un pizzico di capacità critica, ma è sempre cordiale e disponibile..., una signora anch'ella, insomma tutto pieno di signori in giro).

Trascorsa la stagione delle piogge, ricomincia a soffiare il kaskazi, il monsone caldo ed umido da nord-est e la barca di Mario è pronta per una nuova stagione di avventure. Ma il negretto non si presenta all'appuntamento con l'amico di Mario, è morto di aids.

Lascia la moglie e quattro figli. Era pur sempre il loro papà. Anzi no, soltanto due erano figli suoi, gli altri due erano i figli di suo fratello. Si unirono al suo nucleo famigliare un paio di anni prima quando anche il loro padre morì di aids e la moglie, loro madre, iniziò irrimediabilmente a deperire.

Secondo la moglie di Mario è successo perché spacciavano (eziologia di tipo morale secondo cui la malattia punisce, giustamente, chi se lo merita).

Per la moglie del negretto invece, la sciagura che sta colpendo l'intera famiglia, è stata causata dall'infrazione di tabù sessuali da parte della cognata. Si prostituiva in locali frequentati da attempati europei sulla meravigliosa costa del Kenya. Gli anziani (quelli africani) dicono infatti che coloro che hanno un'attività sessuale non morale si espongono deliberatamente ed inevitabilmente all'azione di pericolosi spiriti. Chi ne è colpito si indebolisce e deperisce sino a morire.

Anche per Mario le cose non succedono mai per puro caso. C'è una sorta di logica divina che soggiace agli accadimenti. I negretti della costa, anzi i negri della costa, sono sciocchi, pigri e fannulloni, oltre ad essere totalmente incapaci di risparmiare (e per la maggioranza pure musulmani, aggiungerei), ed è fondamentalmente per questi motivi che, a loro, accadono le cose peggiori. Dovrebbero impegnarsi di più per far cambiare il corso degli eventi. Non dovrebbero accontentarsi delle condizioni in cui vivono. Il vero problema, è che non hanno voglia di lavorare (un po' come i nostri meridionali). Per rafforzare la sua convinzione, Mario spiega che i negri dell'entroterra si sono emancipati proprio attraverso il lavoro ed una visione cristiana del mondo (che aiuta), seppur negri anch'essi (ma per Dio, si sa, c'è proprio spazio per tutti).

L'approccio è di tipo calvinista, non c'è dubbio. E' proprio la riuscita nella vita (leggi arricchimento) che fornisce la prova dell'accoglimento nella grazia divina. Il metro di giudizio è il lavoro. Se la vita, attraverso il lavoro, ti premia, allora è sicuro, sei nella grazia divina. La vita non ti premia, sei fuori dalla sua grazia, dispiace, ma è così.

Ma allora si tratta di un Dio cattivo che premia alcuni lasciando loro la possibilità di raccogliere i frutti del loro lavoro e castiga altri destinandoli irrimediabilmente agli stenti? No, ci mancherebbe, è la nostra prospettiva parziale e fallibile che ci impedisce di cogliere la perfezione e l'infallibilità (non dimentichiamo giustizia) dei piani divini.

E' corretto dunque attribuire la colpa ai poveri della loro miseria, ai malati delle loro affezioni, agli emarginati e derelitti della loro deriva. Non c'è dubbio.

Insomma gli sta bene, è destino.

O vorremmo piuttosto pensare che esistano delle sciocche ragioni storiche e sociali che hanno contribuito ad emarginare e condannare le popolazioni della costa a vantaggio di altri gruppi sociali i quali hanno elaborato una serie di stereotipi e luoghi comuni che giustificano ideologicamente la loro posizione egemone a scapito di coloro che debbono affrontare una miserabile sorte?

Ma per far ciò dovremmo assumere l'esistenza di entità metafisiche (e malefiche) come la storia e la società (che sappiamo bene non esistere, fortunatamente) che altro non farebbero che distogliere l'attenzione dall'unica cosa di cui necessitiamo veramente oggi: il realismo.

[dopo una delirante chiacchiera con Mario sulla spiaggia assolata. Ai bordi della spiaggia, sotto delle rocce sporgenti, ci sono dei beach boys in agguato come coccodrilli. Mario li odia, sono dei depravati, dice. I beach boys sono in realtà il corrispettivo dei turisti, il loro specchio; io li trovo odiosi entrambi. Non esistevano prima, sono nati con l'emergere del fenomeno turistico. Vendono ciò che i turisti chiedono, nell'ordine: sesso, droga, souvenirs. Turisti e beach boys vivono nel medesimo ambiente: la spiaggia. Si guardano reciprocamente con sospetto. Spogliati gli uni, vestiti gli altri; al sole gli uni, all'ombra gli altri e, quando una nube nera oscura il sole e piove, gli uni bestemmiano il loro Dio, gli altri lo benedicono.
Il turismo è la forma compiuta della guerra, ha detto una volta Marc Augé]

martedì 10 gennaio 2012

Que viva el indio muerto, que muera el indio vivo...

Pedro cammina sulla ripida salita, è abituato a farlo.
Veste pantaloni lunghi, una camicia leggera in tela di lino, un cappello di paglia e huaraches (sandali in cuoio intrecciato).

Sull'altro versante del promontorio c'è la sua abitazione, con i suoi tre figli ancora piccoli che dormono su amache appese e sua moglie che stamattina, quando era ancora buio, era già impegnata a sciacquare il mais in un grosso secchio di metallo.

Dietro di sé ha appena lasciato la sua milpa, il campo di mais che ha ricavato disboscando un piccolo tratto di selva. Ha tagliato la vegetazione con ascia e machete e poi, al culmine della stagione secca, gli ha dato fuoco. Quelle ceneri nutriranno il terreno che la pioggia feconderà. Dalla milpa Pedro ricava tutto ciò che è necessario per il sostentamento di sé e della sua famiglia. Soprattutto mais, fagioli, zucche e chiles; del resto sono i medesimi prodotti che hanno permesso in antichità l’evoluzione delle grandi civiltà mesoamericane.

Alcuni si chiedono il motivo per il quale nella Mesoamerica antica non si sia mai sviluppata l'agricoltura (che prevede l'uso dell'aratro); mentre le tecniche di coltivazione di allora non andarono mai oltre la primitiva orticoltura da zappa (ottenuta in realtà con l'utilizzo di un semplice bastone appuntito).

C'è da dire che in epoca preispanica, gli unici due mammiferi di grosse dimensioni presenti nel continente americano erano il bisonte ed il lama. Provate ad immaginarli attaccati ad un aratro.
Poi, immaginate di doverli convincere a lavorare per voi; prima l'uno, poi l'altro.

Adesso sapete perché l'agricoltura non poté svilupparsi in quel continente.

Nel taschino della camicia Pedro porta un piccolo pacchetto di carta legato con un cordino, contiene picietl, foglie di tabacco fresco tritate. No, questo tabacco non si fuma. Si tratta di un amuleto, protegge, allontana i pericoli e i malos vientos. Pedro ha una mentalità magica e tutto ciò che accade intorno a lui, anche il particolare più insignificante, può rappresentare un presagio. Un evento che si iscrive nel corso necessario degli eventi. Il futuro per lui, non è altro che un modo di ripresentarsi del passato.

Nella borsa di fibra vegetale intrecciata porta una serie di cose raccolte nella milpa. Non si tratta di ortaggi, ma di oggetti di un certo valore.
Pedro si sente un po’ a disagio a trasportarli, non è del tutto tranquillo. Già, perché gli oggetti che porta nella borsa sono preziosi reperti archeologici. Ma Pedro non è un ladro, non ha rubato quegli oggetti, li ha semplicemente trovati nella milpa, mentre seminava. Ogni volta che piove forte, emergono dalla terra, da soli, basta raccoglierli.

Quando arriva sulla sommità della collina, alta ed isolata, si dirige verso un complesso di grandi costruzioni. Non sono edifici qualsiasi. E' giunto a Monte Albán, uno dei più grandi siti archeologici del Messico.

Da dietro una piramide defilata, Pedro ammicca ai visitatori.

Tira fuori dalla borsa degli oggetti molto belli e li mostra ad un visitatore. Una ciotola bianca in alabastro con un serpente arrotolato sui bordi, numerose terracotte e piccole figure in argilla, una collana in giada verde, splendida. Alcuni reperti sono addirittura più belli di quelli esposti nel museo ufficiale del sito archeologico.

Inizia una trattativa serrata per un pezzo che raffigura un nobile personaggio in terracotta con un copricapo di piume e pannocchie. Ma non c’è intesa sul prezzo (qui non c'entra la mentalità magica...).
Ad un certo punto, nella concitazione della trattativa Pedro viene chiamato per nome.

Pedro ci pensa.

E' sicuro, non si è mai presentato al visitatore. Inizia a sentirsi a disagio, è intimorito. Conosce il mio nome? Si tratterà di un agente, mi ha scoperto, mi hanno preso. Rompe gli indugi e glielo chiede direttamente, pronto al peggio.

Per tutta risposta viene incalzato, l'uomo dice di conoscere ogni cosa, può vedere oltre, tanto che svela anche la presenza di due tatuaggi situati rispettivamente sul polpaccio e sull'avambraccio di Pedro (invisibili giacché coperti dagli abiti).

Pedro stavolta è davvero spaventato, raccoglie in fretta gli oggetti e si allontana.

L'uomo però, lo rincorre e, prima che possa scavalcare un muretto, si rivolge direttamente a lui: dai Pedro!

Davvero non mi hai riconosciuto? Si, ci conosciamo!

Due anni fa in questo stesso luogo!
Avrei voluto comprare un reperto, ma non avevo con me abbastanza denaro e tu fosti così gentile da portarmelo direttamente in città, il giorno dopo!

Pedro non poteva fare caso a tutti i clienti, per lui, in definitiva, erano tutti uguali.

Del resto quando due anni prima Pedro si recò in città sperando di vendere il reperto ordinato, non aveva l’abbigliamento che ci si può aspettare da un contadino zapoteco. Indossava indumenti "urbani": scarpe da ginnastica, bermuda di jeans sfilacciati e maglietta del Cruz Azul (ci giocava Camoranesi).
I suoi capelli, neri come le piume di un corvo, erano tirati su col gel.
I suoi tatuaggi non passarono inosservati.

Ci fu un abbraccio.

Non biasimate Pedro, i musei europei sono veri e propri depositi di saccheggi.

Pedro, come gli altri indios messicani, ha soltanto una grossa difficoltà ad aderire al progetto immaginato per il Messico che, ovviamente, non contempla la presenza di poveri e disorganizzati contadini (testardi e fannulloni) che impediscono allo Stato di stare al passo con i tempi.

Le politiche indigeniste, che avrebbero dovuto portare "sviluppo" nelle zone più misere e remote del paese, dove la Storia (cattiva e impersonale), ha relegato le comunità indigene, gli hanno creato ancor più dubbi, senza, in cambio, risolvergli alcun problema.

Si tratta di una questione controversa.

In realtà al governo messicano, in un certo senso, gli indios piacciono, eccome. Qualsiasi momento pare buono per vantare con orgoglio le radici preispaniche.
Festival culturali, eventi in musei archeologici, simboli precolombiani presenti pressoché dovunque, anche sulla bandiera nazionale.

Viene quasi il dubbio che il governo messicano prediliga esclusivamente un tipo particolare di indios: quelli già morti.

[Ho raccontato questa storia in un museo di Torino. Nell'allestimento di riferimento c'era una statuina in terracotta che rappresentava Pitao Cozobi, signore zapoteco del mais. A sorreggerla una serie di collane fatte con semi di mais blu, gialli, rossi e bianchi. Sarà stato per l'umidità conservata dalla terra usata come base per l'allestimento oppure per la primavera incombente, ma in quell'occasione, il mais, incurante di trovarsi in un tempio della cultura, germogliò...]

martedì 6 dicembre 2011

Il re scarlatto

Viorica cammina velocemente per gli stretti vicoli di Bari vecchia. La sua testa è coperta da un leggero velo rosa annodato sotto il mento. In una delle mani, che tiene al caldo nelle tasche di una giacca nera, stringe una piccola icona religiosa. Entra velocemente in una grande basilica dove, tra poco, sarà celebrato un matrimonio. Ma invece di salutare gli sposi e prendere posto nei banchi, costeggia rapidamente la navata sulla destra e scende da una scalinata.

L'atmosfera del piano interrato è diversa, più raccolta, l'aria è resa densa da ceri ed incensi che bruciano intorno all'altare. La cerimonia ortodossa è appena cominciata, durarà ancora almeno un paio d'ore; il sacerdote barbuto officia direttamente sul sepolcro di San Nicola, ricorre il giorno della sua morte.

Le reliquie di San Nicola furono portate a Bari dalla Licia, una regione dell'odierna Turchia, per sottrarle all'invasione dei Mori.

In antichità il santo era noto come portatore di doni prima che la Controriforma imponesse per quel ruolo il solo Bambin Gesù destinando al santo il più modesto compito di proteggere i navigatori.

Nessun dramma, tornerà a prendersi la rivincita un paio di secoli dopo.

Nel frattempo viaggia a lungo. Intagliato nel legno delle polene di imbarcazioni di navigatori calvinisti olandesi (ubriachi), arrivò fin dall'altra parte dell'Atlantico. E' qui che divenne un personaggio e subì varie trasformazioni. Una in particolare. Per il fatto di essere festeggiato a dicembre dalle comunità di migranti, divenne un vero e proprio Uomo di Natale; perlopiù un poveraccio che durante l'inverno vendeva delle cianfrusaglie (tirandole fuori da un sacco malconcio). Usava regalare qualcosa ai bambini, è vero, ma ogni tanto se ne portava via qualcuno particolarmente indisciplinato (sarà stato per vendicarsi del Bambin Gesù?).

Quando torna in Europa è invece subdolamente buono ed è tutto vestito di rosso come un re. (E beve la Coca-Cola, molta Coca-Cola).

Non solo torna, ma decide di ritornare periodicamente, proprio come fanno le divinità.

Ma si tratta di una divinità speciale. La sua credenza divide infatti le generazioni. Gli adulti non ci credono, ma invitano i bambini a farlo e sono pronti a qualsiasi imbroglio pur di raggiungere quello scopo. Ma soltanto fino all'adolescenza, poi il segreto viene rivelato. Per certi versi, non è molto diverso da ciò che accade nelle società segrete africane quando ai giovani adolescenti, nella penombra della capanne iniziatiche appena illuminate dall'incerto fuoco delle torce, viene svelato il segreto stesso della celebrazione del rito ed altri misteri connessi al mondo degli adulti.

Il rito di passaggio serve a far prendere all'iniziato la consapevolezza delle sue responsabilità verso la società.

Conoscendo la vera origine dei doni di Natale ora, l'adulto, ha l'obbligo di entrare nel circuito di reciprocità (dare e prendere doni) e di perpetuare con disinvoltura l'imbroglio nei confronti di coloro che non sono ancora iniziati, facendogli credere che i regali arrivino da un mondo mitico ed anonimo.

In Africa, la forza del rito iniziatico è data anche dall'apparizione scenografica dell'antenato mitico. Solitamente appare rappresentato con un costume di raffia; volteggia mascherato e danza.

Se alla vigilia di Natale sentirete bussare alla porta probabilmente, aprendola, non vedrete torce e personaggi danzanti, ma un membro della famiglia (che farete finta di non riconoscere) che impersonifica un anziano proveniente da un mondo immaginario che vuole conoscere i vostri figli. I suoi abiti e la sua slitta evocano l'inverno (non siamo forse vicini al solstizio?).

Già, ma l'inverno e il freddo non costituiscono un binomio scontato e quegli abiti possono divenire molto scomodi.

Ricordo una calda vigilia di Natale ai tropici, nel parcheggio assolato di un Wal-Mart di Mérida (Yucatán) in cui una decina di sudatissimi poveri diavoli (o poveri cristi, fate voi) erano costretti, probabilmente da condizioni economiche disastrose, a vendere biglietti della lotteria natalizia in abiti invernali, con tanto di stivali, giubba e berretto rossi e barba bianca sintetica (prurigginosa). Vagavano strisciando i piedi, sorridendo in maniera poco credibile ai bambini, per strappare pochi pesos ai loro genitori.

E sono proprio i supermercati ad essere divenuti il suo regno. E' lì che lo vediamo aggirarsi, rosso. Del resto chi più di lui fa circolare le merci e rappresenta la capacità di essere illimitatamente generosi? E come tale è anche divenuto il simbolo del consumismo ed un vero e proprio idolo del mercato.

Babbo Natale è il mercato.

E come è noto il mercato non è buono né giusto, il mercato è spietato.

[Se andate a Bari, non mancate di visitare la Basilica di San Nicola. Se volete assistere ad una liturgia ortodossa, scendete al piano interrato, ma non fatelo durante il matrimonio di un vostro cugino, come ho fatto io, i vostri familiari se la prenderanno veramente a male. Anche quest'anno appenderò fuori dal balcone un bel Babbo Natale, ... per il collo]

venerdì 11 novembre 2011

Capelli


Ha i capelli corti, tagliati a spazzola, e non è un caso.

Natalia legge libri di psicanalisi e si è fatta l'idea che sotto alle fluenti chiome che portano le donne si nasconda qualcosa di misterioso. Decide di vederci chiaro, convoca delle conoscenti avvenenti e taglia loro i lunghi capelli, a zero.

Prima però le ha intervistate per cercare di comprendere, nei meandri delle loro esistenze, quali fossero i segreti femminili che le folte chiome nascondevano prima di essere rasate completamente.

I segreti che le donne hanno narrato divengono disegni eseguiti direttamente sulla pelle del loro cranio rasato dall'abilità di Natalia che è un'artista bravissima e sa anche fotografare e allora le dispone in una stanza nella penombra e poi le fotografa di spalle, in bianco e nero, prima con i capelli ancora lunghi e poi con il cuoio capelluto nudo, coperto soltanto dai suoi meravigliosi disegni destinati a scomparire con la progressiva ricrescita della chioma.

Un giorno Natalia attraversa l'oceano, arriva in Europa, sotto le prealpi piemontesi. Vorrebbe dar seguito al suo progetto artistico e si imbatte in persone che i capelli li hanno persi loro malgrado. Sono donne che, a causa della chemioterapia, sono divenute calve. Natalia le intervista e poi disegna le loro storie direttamente sui foulard che sono solite portare per coprirsi il capo. Come le foto, anche i foulard stampati con quei disegni divengono opere d'arte. Svelano.

Le donne hanno i capelli lunghi. Ma la femminilità ed il potere sessuale sono davvero sempre strettamente legati ad una metonimia esibita da una chioma sana ed abbondante? O tali categorie funzionano come dispositivi sociali (maschili) che esercitano potere sul corpo femminile anche attraverso il controllo culturale dei capelli come esperienza incorporata? (Domande retoriche...)

Quali sono le strategie di difesa femminili?
Le femministe, ad esempio, portano i capelli corti per sfidare apertamente il potere maschile. Altre donne, al contrario, fanno le extension per aumentare la loro carica di desiderabilità ed accrescere il loro potere di seduzione.

Il documentario Hair India ce lo ha insegnato: anche il nostro corpo è entrato nel circuito della società di mercato. I capelli rasati nei templi hindu, offerti da povera gente in segno di purificazione, vengono raccolti e venduti una volta all'anno al miglior offerente. Grandi compagnie si sfidano in aste volte ad accaparrarsi a prezzi modici i migliori capelli sul mercato, i più sani e resistenti. Quelli indiani sono indubbiamente i migliori. Vengono spediti in Europa, lavati e divisi per lunghezza in ciocche perfette e tinte con ogni sfumatura desiderabile. Poi vengono messe sul mercato ed entrano nelle migliori boutique du coiffeur dove le extension vengono applicate a prezzi elevatissimi. Capita che alcune di quelle ciocche, rasate nel templio e lavorate in Europa, facciano ritorno in India in splendide confezioni patinate per essere acquistate da ricche donne, che magari abitano soltanto ad un paio di strade di distanza da quel templio da cui i capelli provengono.

Dunque senza capelli non esiste femminilità?
Il corpo può essere modificato mediante una parrucca. Per nascondere la calvizie, la perdita di potere, di femminilità, per nascondere i segni della malattia.

Ma voglio ricordare anche quella studentessa musulmana che per andare all'università pubblica in Turchia era obbligata ad indossare una parrucca per eludere un sistema repressivo che impedisce di indossare il velo islamico nei luoghi pubblici. Con vergogna e la paura di essere scoperta, ma con il capo coperto, la parrucca le restituisce la femminilità minacciata.

Natalia, che nel frattempo ha abbandonato l'approccio psicanalitico per per adottare quello dell'antropologia del corpo, è convinta che meno capelli non significhino necessariamente meno femminilità e seduzione. Per convincere anche gli altri, ricorre ad un significativo atto simbolico di resistenza femminile, prende un'immagine della Venere di Botticelli, simbolo assoluto di femminilità, e con photoshop cancella accuratamente i suoi capelli. Completamente calva si staglia nella sua conchiglia.

I capelli sono corpo.

E' per questo motivo che Mwatime, seduta sulla veranda della sua abitazione, rade i capelli di suo figlio e li colloca nelle fessure del muro crepato di casa sua, fatto di rocche coralline, pali di mangrovia e fango, prima di provvedere a sotterrarli in un luogo sicuro, per evitare che possano essere rubati da un muchawi (stregone) e con essi esegua un pericoloso incantesimo. Si, perché i capelli continuano ad essere parte del corpo anche quando se ne separano. In Africa, capelli ed unghie non si buttano, si nascondono.

Mi raccomando, accapigliatevi se necessario, mettetevi le mani fra i capelli, per vezzo o per disperazione, ma diffidate da chi vi mette le mani o lo sguardo sui capelli.

[Natalia mi è stata presentata da Gigi, lo ringrazio. Mwatime è una cara amica, non ho mai visto i suoi capelli che sono sempre coperti da un velo colorato quando mi incontra. Ho rivisto Hair India e lo rivedrò ancora giacché ne vale davvero la pena...]

[L'altro giorno sono andato a tagliarmi i capelli...
...La barbiera (gentile come suo solito):
- Ciao Fabio, come te li taglio i capelli?;
...Fabio:
- In silenzio per favore, in silenzio..."]