venerdì 27 aprile 2012

La cultura è magica...


"Quando Nieves mette il vestito nahuatl non è più la stessa".

Peccato, perché lei è davvero bellissima nei suoi lineamenti amerindi e si fatica a pensarla diversa da com'è.

Lei stessa ritiene di esprimere la sua cultura più autentica (quella ereditata dagli antichi aztechi, nella sua personale visione) quando recita poesie in lingua nahuatl davanti a un uditorio attento e festante (?). Per lei la cultura è un bagaglio che ha ricevuto in eredità dai suoi ascendenti. Mi ha guardato con sospetto quando le ho detto che a mio avviso non aveva bisogno di vestire un huipil azteca per esprimere la sua identità e la sua cultura, poi, il suo sguardo è divenuto comprensibilmente orrido quando le ho confidato che, dalla mia prospettiva, pur essendo lei, quel giorno, vestita semplicemente con jeans e maglietta, potevo apprezzare "l'autenticità" culturale dei suoi huaraches (sandali di cuoio) ancora sporchi di fango che, pur muti, raccontavano della sua vita di campo, da contadina alle prese con comuni problemi di ejido (gli ejidos, in Messico, sono terre di proprietà statale concesse ad uso comune a comunità di indios).

Quando Kroeber e Kluckhohn si chiesero cosa fosse la cultura compilarono un elenco di oltre centosessanta definizioni ed altri loro colleghi, in seguito, conclusero che con tutta probabilità, la cultura, così come l'avevano definita gli antropologi fino a quel momento, nemmeno esiste, è un'invenzione.

Forse, la cultura è magica.

Se cerchi di definirla, scompare. Se cerchi di conservarla, come una strega si trasforma in qualcosa di diverso (ideologia per esempio, o folklore, o un tacchino) .


Si tratta di un processo spontaneo e, come tale, la cultura, non ammette alcuna riflessione su di sé, è uno specchio fumante di ossidiana, come quello stretto tra le mani di Tezcatlipoca di cui la divinità si serve per uccidere i nemici.

Quando gli sciamani mazatechi vollero conservare la pratica di ingestione dei funghi allucinogeni, dei quali si servivano per scopi di cura (sono perennemente malati, poveracci) e per viaggiare verso la dimensione parallela, non sfilarono in parate colorate e festose con vessilli a forma di fungo davanti ad un pubblico plaudente e pagante. Fecero finta di niente e, nottetempo, continuarono a divinare, proiettando le loro anime in un mondo ancora non colonizzato dalle croci di chi voleva trasformarli da animali liberi in uomini schiavi (per il loro bene, si intende).

La pratica si è conservata sino ad oggi (pur mutando come ogni cosa muta, questo è un dogma) proprio perché non vi è mai stata la volontà esplicita di farlo. Si è conservata come spazio di resistenza culturale spontaneamente sottratto (finché si è potuto) allo sguardo di una divinità più potente (sono stati quegli spioni dei frati e dei catechisti a rivelarglielo, ne sono sicuro).

Coloro che si dedicano alla conservazione ed alla patrimonializzazione della cultura potrebbero trarre il suggerimento che la miglior conservazione è proprio quella incosciente (apprezzare il gioco di significati tra non consapevole e non responsabile), ovvero quella nascosta nelle pieghe della pratica? Forse si, ma rimarrebbero senza lavoro, dunque no.

Sono convinto che le culture siano sì, da documentare (soprattutto per dare lavoro agli antropologi), ma conservare per conservare e patrimonializzare per patrimonializzare, senza avere un piano adeguato sull'impiego della documentazione prodotta, non significa forse fare il gioco della globalizzazione che altro non desidera se non musei etnografici da visitare più che curarsi realmente della condizione delle culture che vengono studiate?

Opporsi ideologicamente alla conquista non significa forse costruire spazi operativi di controcultura, fare cultura, anche attraverso l'impiego attivo della documentazione culturale?

Nessun timore, anche in caso di risposta affermativa, non servirà a nulla.


Poi viene in mente che quando un gruppo di intellettuali italiani del quindicesimo secolo si proposero di tornare agli antichi fasti, reinventando le loro tradizioni del passato, con propositi all'epoca probabilmente risibili (tipo costruire le chiese in stile classico) diedero origine semplicemente al Rinascimento. Ma, agli europei riesce sempre tutto meglio? Quindi il ritorno al passato delle culture Altre è sempre e solo segno di decadimento culturale?

Le teorie confliggono.

Io sono dell'idea che, per documentare, conservare e patrimonializzare (tutte pratiche di grande spessore ideologico), si debba fare come hanno fatto gli sciamani mazatechi.

Ma saremo ancora capaci di trasformarci (come gli sciamani o come Nieves, o come le culture, o come le teorie antropologiche)?

Nell'incertezza complessiva mi aggrappo a due punti fermi fissati da Marshall Sahlins rispetto all'antropologia nel lungo periodo:

"uno: gli antropologi di oggi saranno tutti morti, due: avranno tutti torto".