giovedì 14 febbraio 2013

Majini


Kache vomita. E' la terza volta oggi. Il suo stomaco si contorce e le fa male mentre si piega su se stessa con le vene delle tempie che pulsano forte; le capita ogni giorno, ma soltanto quando torna a casa. 

Kache lavora a Malindi come domestica in una casa Swahili. I suoi padroni sono benestanti, gestiscono qualche chiosco e alcuni matatu (piccoli furgoncini impiegati per il trasporto collettivo) che viaggiano sempre pieni sulla strada che corre lungo la costa. Come altre famiglie swahili si possono permettere una collaboratrice Giriama che proviene da una regione interna, da una piccola località sita in una macchia di foresta da cui Kache ne esce come un animale spaventato. Questa è l'idea che gli Swahili hanno dei Giriama, esseri umani appena degni di questo nome, Nyika, popolo della foresta (poco affettuosamente selvaggi). E non vedono nemmeno molto bene gli altri otto gruppi che, con i Giriama, sono compresi sotto l'etichetta tribale Mijikenda inventata negli anni trenta dagli inglesi (che hanno sempre adorato semplificare le questioni complesse piuttosto che sforzarsi di comprenderle) per venire incontro, ad ogni costo, ai loro interessi coloniali ed imperialistici (oltre ad essere gli unici a distinguersi, con i cani, per camminare in strada sotto il sole africano del mezzodì).

Quando gli Swahili pensano al Kenya non rivolgono lo sguardo verso l'interno, verso la capitale Nairobi o alle sconfinate savane africane, ma preferiscono volgergli le spalle e guardare verso l'oceano, oltre l'orizzonte. Del resto i commerci che permisero il fiorire di una raffinata civiltà sulla costa africana dopo il VII secolo si sono sviluppati sfruttando i movimenti del Kuzi e del Kaskasi, due monsoni che in passato hanno fatto dell'Oceano Indiano un vero e proprio lago islamico solcato da imbarcazioni con equipaggi tanto eterogenei da far rabbrividire qualsiasi purista culturale (ce ne sono ancora in giro, possiedono un enorme corno che gli spunta dalla fronte). E' in questi antichi commerci, spinti da venti favorevoli per scambiare prodotti di diverse nicchie ecologiche (oltre a datteri ed altri cibi necessari alla rottura del digiuno di ramadan), che affondano le radici storiche della ricchezza e dello status sociale degli Swahili della costa del Kenya (che godono comunque di un prestigio di gran lunga inferiore rispetto agli arabi, agli indiani e ai bianchi che abitano le medesime regioni).

Sebbene esistano ragioni storiche che invitano gli Swahili a guardare al di là del mare verso l'Arabia, l'Oman e lo Yemen, terre di ricchezza ma soprattutto di pia moralità, la popolazione islamica (swahili, africana o araba che sia), concorda nel ritenere che la costa kenyota sia diventata un impuro luogo di perdizione lasciva a causa del turismo occidentale che favorisce lo sviluppo della prostituzione ed aumenta la richiesta di droghe ad uso ricreazionale.

Kache non aveva tante altre possibilità. I ragazzi e le ragazze come lei, che non si impiegano come lavapiatti o camerieri a due dollari al giorno negli hotel italiani ed inglesi della costa, finiscono normalmente per alimentare il mercato della prostituzione affollando i bar frequentati da turisti e turiste bavosi, per morire poi dimenticati, divorati dall'aids. 

Kache stima molto i suoi padroni e quando torna al suo villaggio ne parla con ammirazione a sua sorella. La sua famiglia, come maggior la parte dei Giriama, è cristiana. Suo papà Kalume possiede, come ogni buon cristiano, una capanna buia con alcuni idoli posti su un ripiano di legno consumato; tra le effigi cattoliche si staglia una lunga scultura lignea dove vive lo spirito di un antenato. Il pastore della chiesa pentecostale, che da anni fa proseliti nel piccolo villaggio, dice che quella è la capanna del diavolo.

Kache non solo vomita, ma ha cattivi pensieri e a volte le capita di esprimersi in lingue sconosciute, pronuncia addirittura vocaboli arabi e sente delle voci. 

La sua situazione di disordine è un bel dilemma. Un dilemma complesso oltre che fortemente angosciante. Le categorie mediche occidentali avrebbero difficoltà a cogliere tale complessità. Si tratta forse di un un problema digestivo? Necessita di esami all'apparato digerente? Oppure si tratta di un problema di ordine mentale da collocare nell'ambito delle categorie della psicopatologia che riducono tali sintomi a forme di schizofrenia o psicosi confinate in stati mentali confusi?

Il fatto è che siamo stati abituati a pensare alla persona esclusivamente come ad un organismo biopsichico i cui confini coincidono naturalmente con quelli del corpo di un individuo. Il rischio è sempre quello di proiettare le nostre categorie pensando che esse siano la realtà anziché un possibile modo di intenderla. La concezione della persona in Africa è differente. Essa è intesa in termini relazionali, trascende l'individualità e si colloca in una trama più ampia, familiare, sociale e simbolica. Tanto che è considerato ammissibile che talvolta la propria condotta non sia il solo risultato di un'azione soggettiva, razionale o impulsiva, ma possa essere condivisa con entità esterne che si aggirano invisibili. Il dottore, in Africa, più che chiederti dove hai male ti chiederà dove sei stato ultimamente oppure cosa hai fatto e chi hai visto. L'eziologia di un disagio, di un disturbo o di un malanno vive dunque nelle pieghe delle relazioni sociali e da esse non si può separare.

Ultimamente Kache è stata a Malindi e quando mangia biryani (riso e montone stufati) non ha problemi, sta bene. Ricorda però di aver raccolto del denaro trovato in casa dei padroni, sul pavimento e se li è intascati.

E' quello che racconterà ad Hajj, il guaritore Swahili che Kache visiterà nel pomeriggio per affrontare il disordine esistenziale che sta vivendo.

Hajj sa bene che quella di far trovare soldi in terra è una strategia di alcuni majini, spiriti che arrivano via mare (dall'Arabia?) che possono essere responsabili anche di gravi disabilità infantili. Si tratta di terribili esattori per coloro che pretendono facili ricchezze stringendo patti diabolici con queste entità che arrivano, per ritorsione, a succhiare il sangue di adulti e bambini rendendoli deboli ed emaciati. Per evitare la minaccia è necessario accondiscenderli con abbondanti sacrifici di animali.

Sebbene lo zio paterno di Kache, il fratello di Kalume, sia un abile guaritore Giriama nessuno della famiglia biasima Kache per aver scelto di recarsi da un guaritore swahili che per curare utilizza la parola scritta anziché polveri vegetali contenute in piccole zucche.

Seduto su una stuoia, con le gambe incrociate, Hajj consulta, apparentemente a caso, una pagina della Falak (libro di geomanzia islamico) per divinare quale sia, nello specifico, il majini che affligge Kache. Gli occhi stanchi ed opachi della ragazza seguono i movimenti del dito del guaritore sulle pagine del libro che, attraverso una mantica astrale (rifiutata dall'islam ufficiale), viene condotto alla rivelazione di una configurazione cosmica che svelerà l'identità dello spirito. Quello che si è impossessato di Kache è uno spirito che la vuole convertire all'Islam. La tormenta giorno e notte e la spinge a rifiutare o rigettare il cibo giriama (ugali, polenta di mais, roditori del bush stufati, vino di palma), cibo considerato haramu (proibito, impuro), o semplicemente non adeguato per gli islamici. Ecco perché vomita, quel cibo la contamina.

Hajj curerà Kache attraverso la parola del Libro. Lui è un mwalimu wa kitabu, maestro del Libro. Dopo aver divinato grazie alla Falak apre il Corano (in realtà una  sua versione economica in formato ridotto, ma il potere del Supremo non bada a questi dettagli) per trovare il versetto adeguato. Poi lo trascrive. Un raggio di sole fa brillare i ricami dorati della kofìa che Hajj porta sul capo chino sul foglio in cui viene trascritta accuratamente la preghiera con un pennello. Si tratta di un atto sacro, da esercitare con grande perizia ed attenzione, l'arte calligrafica trascende la materia, è la parola di Dio che si manifesta in una raffinata veste estetica.

L'inchiostro che usa Hajj è solubile ed il foglietto con l'invocazione è poi immerso in una bottiglietta colma di acqua di rose dove presto si dissolverà. Kache berrà la pozione incorporando direttamente la preghiera che la curerà.

Un guaritore tradizionale giriama non avrebbe potuto trovare un rimedio altrettanto efficace per questo tipo di afflizione, i suoi strumenti simbolici sono troppo deboli per delle forze che discendono direttamente da un dio così potente. La subordinazione sociale dei Giriama si riflette anche sull'ambito simbolico, è questo loro pensiero che rende gli spiriti ed i rimedi islamici superiori rispetto a quelli tradizionali africani. Come buoni subalterni i Giriama credono davvero di essere naturalmente inferiori agli Swahili. E ciò non fa che rafforzare l'egemonia degli uni sugli altri.

Kache ha seguito comunque il consiglio dello zio che l'ha invitata a sacrificare un pollo per scongiurare una eventuale offesa arrecata ad un antenato.

Nel divenire tossico il suo corpo si è trasformato in una sintesi delle disuguaglianze che caratterizzano i rapporti sociali sulla costa del Kenya fra Giriama e Swahili. La sua malattia era una difficoltà angosciante a pensarsi nel mondo come ragazza Giriama che, fuori dai precetti tradizionali, vorrebbe sposare un gentiluomo swahili per migliorare la propria situazione esistenziale sfuggendo alla condizione di subalternità.

Mentre torna a casa Kache pensa e continua a rielaborare la sua esperienza. Ha tremendamente bisogno di ridefinire e riaffermare in maniera inedita la sua presenza nel mondo. Sarà questa trasformazione, iniziata con l'intrusione del majini e proseguita con le cure di Hajj a determinare la sua guarigione, collocandola in una nuova trama di senso.

Domani è venerdì, non lavorerà.

Camminando sul sentiero sterrato attraversa brulli campi di cassava invasi da erbacce. In lontananza fa da sfondo una piantagione di lunghe ed eleganti palme da cocco. Fa una sosta all'ombra di un albero frondoso con un tronco sottile, totalmente privo di corteccia. E' una pianta di chinino, la corteccia viene rimossa per farne un infuso contro la malaria. Qui, la malaria, ce l'hanno tutti.