giovedì 31 marzo 2011

La potenza invisibile

La lama scorre sul braccio di Juma, poi velocemente passa ad incidere la spalla e poi ancora sull’avambraccio vicino al polso, ma niente, nessun segno, sangue o ferite.

Poi il coltello viene usato per tagliare della raffia che cede senza sforzo alla lama affilata. Appena prima, una lametta era stata utilizzata dal mganga per praticare piccole incisioni sulla testa, sul petto e sugli avambracci del suo paziente per collocare poi al suo interno della medicina, una polvere nera, trito asciutto e finissimo di erbe segrete.

Ora Juma è più forte, può combattere fino a dieci avversari senza alcun timore. La sua autostima è stata rafforzata (debole spiegazione psicologica), il rituale ha fornito a Juma una protezione sia dagli agguati che dai malefici dei terribili achawi.

Ma l’incantesimo ha un fragile equilibrio e può essere facilmente spezzato, il polpo, in particolare, potrà pregiudicare la sua efficacia. Infatti se Juma se ne ciberà la forza acquisita lo abbandonerà (si tratta di una pratica magica influenzata dal pensiero islamico e non ha effetto su chi si rende impuro mangiando carne di maiale o, in questo caso di polpo, probabilmente uno dei piatti preferiti dal paziente).

Per ingraziarsi gli spiriti e garantirsi la loro protezione Juma ha dovuto portare al mganga un piccolo pollo che è stato in precedenza sacrificato alle potenze invisibili. Preso per le zampe è ora utilizzato per benedire gli atti della cerimonia.

Nei giorni seguenti Juma riflette e si sente orgoglioso di aver ottenuto tale enorme forza poi, volontariamente, decide di mangiare un piatto di polpo stufato accompagnato da riso pilau, e se lo gode, consapevole di aver infranto l’incantesimo. Questa è forza. La magia è potente.

[discutendone con Juma, davanti ad un piatto di ghiteri special con ugali, a lui debbo l’incontro con il mganga duruma Mole]

lunedì 21 marzo 2011

Quando a bere sono gli altri

"E' stata una serata divertente, otto-dieci birre a testa ed anche del vino di palma per concludere la serata, un vero spasso".

"C'era anche Simeon?"
"No, lui e' cristiano, la sua chiesa non gli permette di bere..."

"Ok, Juma, ma tu ti professi musulmano ed anche l'Islam vieta di bere".
"Certo, ma il fatto che sia vietato non vuol dire che la gente non lo faccia".

Ovvio.

Del resto in Africa i cristiani, sono riconoscibili. Basta guardare le scarpe.

[Parlando con l'amico Juma su di un matatu diretto da Ukunda a Tiwi Sokoni]

martedì 15 marzo 2011

Indumenti

"Ma i Maasai si vestono ancora in maniera così antica e ridicola oppure si sono modernizzati e si mettono per esempio dei pantaloni corti?" (?)

No no signora, vestono ancora più o meno come è vestita lei oggi.

[In spiaggia, signora di mezza età vestita, ovviamente, con bikini, ciabattine, un pareo giallo trasparente alla vita ed uno velato azzurro appoggiato su una spalla].

giovedì 10 marzo 2011

Del Maasai di Chivasso

Moses è alto, prestante, ha una lancia e uno scudo, è un vero Maasai.
Anzi è un Samburu.

Si, perché se si vogliono vedere i “veri” Maasai bisogna viaggiare negli aridi territori dei loro “cugini” Samburu (altro gruppo etnico di lingua Maa). Li vedrete litigare in faide sanguinose con i loro vicini Borana e Pokot, a colpi di kalashnikov, per vendicare furti di bestiame o per regolare contese relative all'accesso a pozzi d'acqua (regalo avvelenato di benefattori occidentali che hanno concentrato l'acqua in un solo punto scavando in profondità e prosciugando al contempo tutte le pozze d'acqua del circondario, fonte di vita, per quanto misera e melmosa, per molte famiglie ed il loro bestiame).

Quando i Maasai del sud vennero forzatamente confinati nei parchi del Maasai Mara e del Serengeti fra Kenya e Tanzania, furono obbligati a vedere nel loro bestiame soltanto una fonte di guadagno anziché di prestigio (differenza sottile ma determinante per lo sconvolgimento dei loro equilibri sociali e culturali) e, rinchiusi in territori nei quali non ci si può più dedicare alla pastorizia nomade, furono spinti a diventare un'attrazione turistica per completare la spettacolare offerta della savana africana con i suoi animali selvaggi, visitati ogni giorno da centinaia di pulmini e fuoristrada.

I territori più a nord invece, inospitali, carenti d'acqua e talmente poveri di risorse da non destare alcun interesse commerciale, furono lasciati al loro destino; è così che i Samburu hanno potuto conservare uno stile di vita da veri Maasai. Moses però non vuole fare il pastore veramente Maasai ed emigra a Malindi, sulla costa.

Vende chincaglieria ai turisti. Poi si innamora di una turista italiana (film già visto). E dopo un paio di stagioni decide di raggiungerla in Italia (cult movie). Giunge a Chivasso, dove si impiega in una grande azienda di pulizie e pulisce e pulisce (ripetizione voluta) gli sconfinati uffici dell'Enel. Va d'accordo con i compagni di lavoro, ma i nuovi familiari lo trattano da negro.

E lui se ne va, dopo un anno, senza dire niente a nessuno, di sabato. Torna sulla costa sud di Mombasa a vendere la sua chincaglieria e poi di tanto in tanto recita il ruolo del vero Masaai raccontando a turisti italiani ciò che di sicuro li stupirà. Dice loro di aver imparato l'italiano così bene appuntandosi frasi di tanto in tanto su foglietti, ma poi tradisce la sua conoscenza approfondita della lingua affermando che per uccidere l'elefante con la lancia bisogna “beccarlo” proprio qui dietro l'orecchio altrimenti “non c'è storia”...

Sono molti i Maasai emigrati dai manyatta odoranti di sterco bovino verso Nairobi o sulla costa di Mombasa in cerca di migliori condizioni di vita. Per molti di loro è praticamente assicurato un posto di lavoro nella sicurezza privata.

Deve essere stata colpa di quella che i sociologi chiamano l'etnicizzazione del lavoro migrante, che ha fatto credere a noi europei che, ad esempio, le filippine fossero “naturalmente” portate per i lavori domestici oppure che il lavoro di maggiordomo fosse da affidare preferibilmente a servizievoli (ed effemminati, secondo gli inglesi) sri-lankesi od ancora che le donne dell'est europeo siano senza alcun dubbio, per ovvie ragioni di vicinanza culturale, le migliori badanti per i nostri anziani.

Sarà allora per questo motivo che, in città, ai Maasai, guerrieri per antonomasia, viene affidato con grande fiducia il lavoro di agente di guardia (mah!).

[Parlando con Moses, Samburu, a cui debbo un regalo prezioso]

giovedì 3 marzo 2011

Dell'ossessione occidentale per il tempo

Scusa quanti anni hai?

Mwanamisi risponde serenamente... Diciannove o venti, ma sono abbastanza sicura di compierne ventuno quest'anno.

Moses invece da più di tre anni dice di avere quarant'anni, dovrebbe aggiornarsi, probabilmente.

Ricordo di aver posto la stessa ingenua domanda durante il mio primo soggiorno nello Yucatàn a Mariano il quale mi rispose senza esitazioni: diciannove. Perplesso manifestai qualche dubbio in merito.

Tornammo sull'argomento giusto qualche giorno dopo e lui, vista la mia esitazione nell'accettare per buona l'età dichiarata, mi chiese di seguirlo nella sua abitazione. In un anfratto nella penombra, dopo aver scostato due amache penzolanti, raggiunse un vecchio baule dal quale estrasse, orgoglioso, un impolverato e sgualcito documento di identità redatto dallo Stato dello Yucatán.

Ufficiale.

Leggo la data di nascita riportata ed immediatamente mi rivolgo a lui dicendogli "guarda che hai trent'anni". Con espressione seria mi risponde: "strano, quando me lo consegnarono sono sicuro che mi dissero che di avere diciannove anni".

Così, in molte regioni del mondo, non ci si preoccupa affatto della data di nascita. Il concetto di età reca con sè significati diversi. I documenti di molti africani nati lontano dai centri urbani più importanti, essendo registrati qualche anno dopo la nascita, riportano una data approssimativa, presunta e per questo motivo tantissimi di loro sono nati, o meglio registrati, il primo di gennaio. Per convenzione s'intende, convenzione occidentale.

[Parlando con Mwanamisi, Digo, il suo nome significa figlia di Misi, suo padre]