giovedì 7 aprile 2011

Confini alimentari

Il sentiero che conduce alla mia abitazione si vede poco nell’oscurità, è per questo motivo che sono accompagnato da Eulogio e Arnulfo muniti di due candele poste in lanterne di vetro.

Procediamo lentamente verso il cenote, pozzo naturale intorno al quale è stato costruito questo piccolo villaggio yucateco, per tal ragione si chiama Yodzonot, "sul cenote" in lingua maya.

Abbiamo appena finito di cenare con tortillas di mais e chile habanero, ma l’apporto proteico di oggi non è stato dato dai consueti fagioli, ma da un sereque, grosso roditore del sottobosco cacciato ieri, notte di luna piena, mentre inconsapevole, si andava ad abbeverare. Buono da mangiare, ma non proprio buonissimo da "pensare"...

Il rumore notturno della selva yucateca è impressionante. Ci vogliono alcune notti insonni prima di farci l’abitudine. Oggi c’è però un nuovo rumore che si avverte via via più forte. E’ il gracidio delle rane, i messaggeri di Chaac, divinità legata alle acque, che avvisa l’imminente sopraggiungere della stagione delle piogge. Sono ovunque, si intravedono nell’oscurità, numerosissime e grandi, molto grandi.

Ci sono momenti in cui bisognerebbe stare semplicemente zitti.

Io invece, rompo il silenzio della passeggiata: “sapete che dalle mie parti le rane si mangiano?”.

Gelo ai tropici.

Avendo dovuto mangiare qualsiasi genere di animali durante la mia permanenza nei villaggi maya (dal procione all’iguana, per intenderci) non pensavo ci si potesse turbare poi tanto per delle rane. Oppure avevo affrontato in maniera irriverente un tema sacro, offendendo i messaggeri della divina pioggia?

Nulla di tutto ciò. Era semplicemente disgusto, viscerale disgusto! Dopo un momento di irrigidimento (che mi aveva fatto temere il peggio), compaiono delle lacrime agli occhi di Eulogio ed Arnulfo. Nessuna commozione, era soltanto il preludio ad una canzonatura assolutamente composta (ovvero si lasciano cadere a terra con la pancia in mano indicandosi l’un l’altro e rivolgendosi a me soltanto per dirmi parole dapprima incomprensibili che di lì a poco sarebbero divenute intelligibili: “prendile, prendile pure! Mangiane quante ne vuoi, non c’è problema, sono tutte per te se vuoi!”). Gentili, ma declinerò l'invito.

Non conoscevo ancora la repulsione per il latte di alcune popolazioni orientali (che lo considerano una secrezione disgustosa e puzzolente) o la dieta prevalentemente liquida, a base di latte e sangue di bestiame delle popolazioni africane nilotiche opposta a quella solida dei loro vicini stanziali, che ricavano i loro alimenti dalla terra. I kamba invece provano repulsione per il pesce. Gli Inuìt sono stati chiamati eschimesi dalle popolazioni circostanti perché si nutrivano di carne e pesce crudi, costume barbaro (non per i pugliesi). Non badateci, quasi sempre i nomi attribuiti dai gruppi umani ai loro vicini sono degli insulti (sono cresciuto in una scuola dove i settentrionali erano chiamati polentoni ed i meridionali mangiacorde, alludendo agli spaghetti).

Ne deriva che i confini identitari sono spesso disegnati su gusti, abitudini e divieti alimentari. Provate a preparare una cena facendo attenzione ai divieti haram (diretti ai musulmani), alle restrizioni koshèr (ebraiche), a quelle di vegetariani e vegani, oppure alle esigenze di celiaci, diabetici e allergici. Senza parlare dei gusti personali.

Eppure in tempi multiculturalismo dilagante, ideologia totalizzante in tema di immigrazione, siamo portati a credere che riunire persone diverse intorno ad una tavola imbandita, per condividere del cibo etnico (mi raccomando, non so cosa voglia dire, ma deve essere etnico), generi di per sé un’occasione di incontro e comunicazione semplice ed immediata.

Non si tratta di scordare la convivialità, valore di base nella convivenza, ma lo spopolare della cena etnica come emblema del paradigma multiculturale lascia pensare ad un’ingenuità di fondo che offre più spazio alla superficialità di un consumo estetico dell’Altro (attraverso la degustazione di un piatto tipico) più che produrre le condizioni di una di una sua reale conoscenza.

La furia architettonica di voler costruire ponti (per avvicinare la diversità) sembra prevalere sulla pazienza archeologica di chi vuole scavare in profondità per trovare analogie, differenze e corrispondenze accettando di fatto la complessità del mondo.

Del resto le cose cambiano, mi viene in mente di aver letto (non ricordo più bene dove) che in una classe di una scuola elementare di Bologna, alla richiesta di elencare un piatto preferito tipico del proprio paese, un ragazzino ha risposto con sicurezza cous cous! "Ma quello cucinato da mia mamma, con i tortellini sopra!"

[rileggendo una pagina di diario, volevo raccontare l'episodio delle rane..., poi mi sono lasciato andare]

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