martedì 6 dicembre 2011

Il re scarlatto

Viorica cammina velocemente per gli stretti vicoli di Bari vecchia. La sua testa è coperta da un leggero velo rosa annodato sotto il mento. In una delle mani, che tiene al caldo nelle tasche di una giacca nera, stringe una piccola icona religiosa. Entra velocemente in una grande basilica dove, tra poco, sarà celebrato un matrimonio. Ma invece di salutare gli sposi e prendere posto nei banchi, costeggia rapidamente la navata sulla destra e scende da una scalinata.

L'atmosfera del piano interrato è diversa, più raccolta, l'aria è resa densa da ceri ed incensi che bruciano intorno all'altare. La cerimonia ortodossa è appena cominciata, durarà ancora almeno un paio d'ore; il sacerdote barbuto officia direttamente sul sepolcro di San Nicola, ricorre il giorno della sua morte.

Le reliquie di San Nicola furono portate a Bari dalla Licia, una regione dell'odierna Turchia, per sottrarle all'invasione dei Mori.

In antichità il santo era noto come portatore di doni prima che la Controriforma imponesse per quel ruolo il solo Bambin Gesù destinando al santo il più modesto compito di proteggere i navigatori.

Nessun dramma, tornerà a prendersi la rivincita un paio di secoli dopo.

Nel frattempo viaggia a lungo. Intagliato nel legno delle polene di imbarcazioni di navigatori calvinisti olandesi (ubriachi), arrivò fin dall'altra parte dell'Atlantico. E' qui che divenne un personaggio e subì varie trasformazioni. Una in particolare. Per il fatto di essere festeggiato a dicembre dalle comunità di migranti, divenne un vero e proprio Uomo di Natale; perlopiù un poveraccio che durante l'inverno vendeva delle cianfrusaglie (tirandole fuori da un sacco malconcio). Usava regalare qualcosa ai bambini, è vero, ma ogni tanto se ne portava via qualcuno particolarmente indisciplinato (sarà stato per vendicarsi del Bambin Gesù?).

Quando torna in Europa è invece subdolamente buono ed è tutto vestito di rosso come un re. (E beve la Coca-Cola, molta Coca-Cola).

Non solo torna, ma decide di ritornare periodicamente, proprio come fanno le divinità.

Ma si tratta di una divinità speciale. La sua credenza divide infatti le generazioni. Gli adulti non ci credono, ma invitano i bambini a farlo e sono pronti a qualsiasi imbroglio pur di raggiungere quello scopo. Ma soltanto fino all'adolescenza, poi il segreto viene rivelato. Per certi versi, non è molto diverso da ciò che accade nelle società segrete africane quando ai giovani adolescenti, nella penombra della capanne iniziatiche appena illuminate dall'incerto fuoco delle torce, viene svelato il segreto stesso della celebrazione del rito ed altri misteri connessi al mondo degli adulti.

Il rito di passaggio serve a far prendere all'iniziato la consapevolezza delle sue responsabilità verso la società.

Conoscendo la vera origine dei doni di Natale ora, l'adulto, ha l'obbligo di entrare nel circuito di reciprocità (dare e prendere doni) e di perpetuare con disinvoltura l'imbroglio nei confronti di coloro che non sono ancora iniziati, facendogli credere che i regali arrivino da un mondo mitico ed anonimo.

In Africa, la forza del rito iniziatico è data anche dall'apparizione scenografica dell'antenato mitico. Solitamente appare rappresentato con un costume di raffia; volteggia mascherato e danza.

Se alla vigilia di Natale sentirete bussare alla porta probabilmente, aprendola, non vedrete torce e personaggi danzanti, ma un membro della famiglia (che farete finta di non riconoscere) che impersonifica un anziano proveniente da un mondo immaginario che vuole conoscere i vostri figli. I suoi abiti e la sua slitta evocano l'inverno (non siamo forse vicini al solstizio?).

Già, ma l'inverno e il freddo non costituiscono un binomio scontato e quegli abiti possono divenire molto scomodi.

Ricordo una calda vigilia di Natale ai tropici, nel parcheggio assolato di un Wal-Mart di Mérida (Yucatán) in cui una decina di sudatissimi poveri diavoli (o poveri cristi, fate voi) erano costretti, probabilmente da condizioni economiche disastrose, a vendere biglietti della lotteria natalizia in abiti invernali, con tanto di stivali, giubba e berretto rossi e barba bianca sintetica (prurigginosa). Vagavano strisciando i piedi, sorridendo in maniera poco credibile ai bambini, per strappare pochi pesos ai loro genitori.

E sono proprio i supermercati ad essere divenuti il suo regno. E' lì che lo vediamo aggirarsi, rosso. Del resto chi più di lui fa circolare le merci e rappresenta la capacità di essere illimitatamente generosi? E come tale è anche divenuto il simbolo del consumismo ed un vero e proprio idolo del mercato.

Babbo Natale è il mercato.

E come è noto il mercato non è buono né giusto, il mercato è spietato.

[Se andate a Bari, non mancate di visitare la Basilica di San Nicola. Se volete assistere ad una liturgia ortodossa, scendete al piano interrato, ma non fatelo durante il matrimonio di un vostro cugino, come ho fatto io, i vostri familiari se la prenderanno veramente a male. Anche quest'anno appenderò fuori dal balcone un bel Babbo Natale, ... per il collo]

venerdì 11 novembre 2011

Capelli


Ha i capelli corti, tagliati a spazzola, e non è un caso.

Natalia legge libri di psicanalisi e si è fatta l'idea che sotto alle fluenti chiome che portano le donne si nasconda qualcosa di misterioso. Decide di vederci chiaro, convoca delle conoscenti avvenenti e taglia loro i lunghi capelli, a zero.

Prima però le ha intervistate per cercare di comprendere, nei meandri delle loro esistenze, quali fossero i segreti femminili che le folte chiome nascondevano prima di essere rasate completamente.

I segreti che le donne hanno narrato divengono disegni eseguiti direttamente sulla pelle del loro cranio rasato dall'abilità di Natalia che è un'artista bravissima e sa anche fotografare e allora le dispone in una stanza nella penombra e poi le fotografa di spalle, in bianco e nero, prima con i capelli ancora lunghi e poi con il cuoio capelluto nudo, coperto soltanto dai suoi meravigliosi disegni destinati a scomparire con la progressiva ricrescita della chioma.

Un giorno Natalia attraversa l'oceano, arriva in Europa, sotto le prealpi piemontesi. Vorrebbe dar seguito al suo progetto artistico e si imbatte in persone che i capelli li hanno persi loro malgrado. Sono donne che, a causa della chemioterapia, sono divenute calve. Natalia le intervista e poi disegna le loro storie direttamente sui foulard che sono solite portare per coprirsi il capo. Come le foto, anche i foulard stampati con quei disegni divengono opere d'arte. Svelano.

Le donne hanno i capelli lunghi. Ma la femminilità ed il potere sessuale sono davvero sempre strettamente legati ad una metonimia esibita da una chioma sana ed abbondante? O tali categorie funzionano come dispositivi sociali (maschili) che esercitano potere sul corpo femminile anche attraverso il controllo culturale dei capelli come esperienza incorporata? (Domande retoriche...)

Quali sono le strategie di difesa femminili?
Le femministe, ad esempio, portano i capelli corti per sfidare apertamente il potere maschile. Altre donne, al contrario, fanno le extension per aumentare la loro carica di desiderabilità ed accrescere il loro potere di seduzione.

Il documentario Hair India ce lo ha insegnato: anche il nostro corpo è entrato nel circuito della società di mercato. I capelli rasati nei templi hindu, offerti da povera gente in segno di purificazione, vengono raccolti e venduti una volta all'anno al miglior offerente. Grandi compagnie si sfidano in aste volte ad accaparrarsi a prezzi modici i migliori capelli sul mercato, i più sani e resistenti. Quelli indiani sono indubbiamente i migliori. Vengono spediti in Europa, lavati e divisi per lunghezza in ciocche perfette e tinte con ogni sfumatura desiderabile. Poi vengono messe sul mercato ed entrano nelle migliori boutique du coiffeur dove le extension vengono applicate a prezzi elevatissimi. Capita che alcune di quelle ciocche, rasate nel templio e lavorate in Europa, facciano ritorno in India in splendide confezioni patinate per essere acquistate da ricche donne, che magari abitano soltanto ad un paio di strade di distanza da quel templio da cui i capelli provengono.

Dunque senza capelli non esiste femminilità?
Il corpo può essere modificato mediante una parrucca. Per nascondere la calvizie, la perdita di potere, di femminilità, per nascondere i segni della malattia.

Ma voglio ricordare anche quella studentessa musulmana che per andare all'università pubblica in Turchia era obbligata ad indossare una parrucca per eludere un sistema repressivo che impedisce di indossare il velo islamico nei luoghi pubblici. Con vergogna e la paura di essere scoperta, ma con il capo coperto, la parrucca le restituisce la femminilità minacciata.

Natalia, che nel frattempo ha abbandonato l'approccio psicanalitico per per adottare quello dell'antropologia del corpo, è convinta che meno capelli non significhino necessariamente meno femminilità e seduzione. Per convincere anche gli altri, ricorre ad un significativo atto simbolico di resistenza femminile, prende un'immagine della Venere di Botticelli, simbolo assoluto di femminilità, e con photoshop cancella accuratamente i suoi capelli. Completamente calva si staglia nella sua conchiglia.

I capelli sono corpo.

E' per questo motivo che Mwatime, seduta sulla veranda della sua abitazione, rade i capelli di suo figlio e li colloca nelle fessure del muro crepato di casa sua, fatto di rocche coralline, pali di mangrovia e fango, prima di provvedere a sotterrarli in un luogo sicuro, per evitare che possano essere rubati da un muchawi (stregone) e con essi esegua un pericoloso incantesimo. Si, perché i capelli continuano ad essere parte del corpo anche quando se ne separano. In Africa, capelli ed unghie non si buttano, si nascondono.

Mi raccomando, accapigliatevi se necessario, mettetevi le mani fra i capelli, per vezzo o per disperazione, ma diffidate da chi vi mette le mani o lo sguardo sui capelli.

[Natalia mi è stata presentata da Gigi, lo ringrazio. Mwatime è una cara amica, non ho mai visto i suoi capelli che sono sempre coperti da un velo colorato quando mi incontra. Ho rivisto Hair India e lo rivedrò ancora giacché ne vale davvero la pena...]

[L'altro giorno sono andato a tagliarmi i capelli...
...La barbiera (gentile come suo solito):
- Ciao Fabio, come te li taglio i capelli?;
...Fabio:
- In silenzio per favore, in silenzio..."]

domenica 4 settembre 2011

Doni e regali per carità; per carità? per carità!


Ovvero: per un'etnografia dei regali caritatevoli di ricchi turisti europei a poveri pescatori di un villaggio della costa kenyota.

I regali più belli sono quelli scelti apposta per la persona che li deve ricevere, un regalo casuale, poco ricercato, fa fare brutta figura. Se il regalo rappresenta invece uno slancio benefico o caritatevole non si può andare troppo per il sottile, l'importante è fare del bene.

Ecco, se io sapessi che qualcuno sta venendo a casa mia con il proposito di fare del bene, me la darei a gambe levate, questo è sicuro.

Agli africani, si sa, non e' mai andata troppo bene. Dopo aver conosciuto la violenza dei nostri interessi, hanno imparato a conoscere anche quella, ancor più feroce, delle nostre buone intenzioni.

L'arrivo in un villaggio africano può essere impattante. I bimbi però sono tutti vestiti alla moda: pantaloni stracciati e maglie "out of size". Poi di tanto in tanto salta fuori anche qualche capo fuori stagione; è così che Jeffi arriva al meeting, con una giacca a vento nera che dalle ginocchia lo copre fino alla bocca dove stringe fra i denti l'occhiello di metallo della cerniera che la chiude fin sotto al suo naso che gocciola (dal caldo?).

E così che il mito dell'occidente ricco e paradisiaco si riproduce e si perpetua; attraverso l'arrivo dei sacchi pieni di meraviglie che giungono da un mondo soltanto immaginato.

Jeffi sa che nei sacchi non troverà soltanto vestiti e si introduce in quello più grande, incurante della ressa che i bimbi più grandi stanno creando, esercitando pressione su chi regge i sacchi di merce. Infatti ne riemerge poco dopo con due sacchetti di caramelle mentre un terzo si intravede dalla tasca della giacca a vento. Non si dovrebbero accettare caramelle dagli sconosciuti... E invece per queste ci si azzuffa. Primi due risultati raggiunti: uno a breve termine: zuffa, ed uno a lungo termine: carie (volevamo mica risparimiar loro le dentature perfette scampate ad ogni genere di subalternita'?).

Ora, dotare di vestiti gente che ha difficolta' a procurarseli è un gesto carino, ma non esente dall'interferire con le relazioni di potere. Capita così che la persona prescelta per gestire gli aiuti assuma un'importanza spropositata sia a livello materiale che sociale. Diviene l'interlocutore dei generosi occidentali, il manager della discarica. Quantomeno fino a quando uno spirito cattivo si accorgerà di lui e lo punirà facendolo ammalare... o lo ha già colto?

Poi ci sono le medicine... sacchi interi. Tenendo conto che qui la sanita' e' a pagamento, si tratta di un regalo sicuramente gradito, ma inutile. Non essendoci alcun medico a gestire il dipensario locale, ogni medicina finira' per essere interpretata piu' per il suo valore simbolico, relativo al mondo dal quale proviene, piuttosto che per il suo principio attivo. Da queste parti, tanto per capirci, coloro che sono orientati verso il mondo occidentale si curano con l'aspirina, i filo-arabi con l'acqua di rose, ma solo per potenziare i riti di cura e gli amuleti contro la stregoneria. Non oso immaginare l'impiego di imodium, aulin, antibiotici a largo spettro, antidolorifici, autan e olii solari. Ma c'è di più, la carità delle medicine rischia di far dimenticare la vera causa che genera le malattie, la povertà. Gli agenti patogeni esistono, ma guarda caso si insinuano sempre fra i più miserabili. Sono cattivi? Oppure cattivo è il sistema che genera ingiustizia sociale?

Ed infine il regalo piu' ricercato: le matite. Ogni bimbo ne ha ottenuta almeno una manciata e corre via con i graffi causati da quelle che non e' riuscito ad accaparrarsi. Questo regalo e' il piu' raffinato, frutto di una riflessione profonda. Con una matita si regala l'emblema dello studio e l'emancipazione che si puo' ottenere attraverso quello. Bello. Qui anche le scuole sono a pagamento, dalla secondaria in poi studia solo chi se lo puo' permettere, il regalo suona come un augurio di prosperita'.
Una nota riflessione di Levi-Strauss poneva il seguente quesito: da quando e' stata inventata la scrittura ci sono state societa' in cui le masse abbiano davvero potuto eliminare il divario che le separava dai dominanti oppure e' proprio attraverso la scrittura e la lettura che i dominanti dominano le masse asservendoli ai loro interessi?...

La carità uccide. Sia quando chiede qualcosa in cambio come fanno i missionari, che sulla scorta di retoriche umanistiche, aiutano la gente con il fine di convertirla, sia quando non chiede nulla anzi, ha proprio il proposito di lasciare tutto così com'é. I progetti di aiuto assistenzialistico hanno reso gli africani dipendenti ed incapaci di intraprendere percorsi di emancipazione. I sostenitori di questa teoria ritengono che gli aiuti dovrebbero essere sospesi per permettere lo sviluppo della libera impresa e favorire l'aggancio al libero mercato internazionale, così come ha fatto l'Asia. Meglio essere dipendenti dagli aiuti o dai capricciosi mercati internazionali?

Sa proprio di un nuovo regalo avvelenato...

Per liberare qualcuno bisogna renderlo indipendente, e basta.

Ci hanno fatto credere che la povertà sia una condizione accidentale e sfortunata, insomma capita.
Invece è un prodotto di scelte ed azioni umane che hanno escluso interi gruppi dall'accesso alle risorse basiche.
Povertà e malattia non sono il prodotto di una imposizione diretta, ma di una violenza strutturale, subdola.
Per fare qualcosa bisognerebbe rimuovere le cause della violenza strutturale che striscia nelle pieghe della disuguaglianza sociale.

Quanto ai turisti ed ai viaggiatori armati di buone intenzioni sono sicuro, mettetevi l'animo in pace, qualsiasi cosa si faccia si sbaglia, si può solo scegliere il modo di sbagliare, null'altro... La generosità perpetua lo stato di ineguaglianza esistente. Il circolo è vizioso.

Waka Waka Africa.

martedì 16 agosto 2011

Africani

Il suono dei tamburi impazza, i sonagli frusciano, piedi nudi battono sulla lucida pietra, ancheggiano le donne con un contenitore di zucca in equilibrio sulla testa... Gli spettatori applaudono anche se le danze non sono fatte per essere guardate, ma danzate...
Si potrebbe dire che gli africani sono bravi a suonare e a danzare perché lo sanno fare semplicemente meglio e invece si dice che hanno il ritmo nel sangue (un'attitudine naturale della quale, in pratica, non hanno alcun merito...);

Gli acrobati volteggiano e si arrampicano gli uni sugli altri dando vita a piramidi umane incredibili. Pratica ereditata da indiani forzatamente deportati in Africa, le cui evoluzioni erano esibite negli zoo umani europei di inizio secolo...
Potremmo dire che sono bravi ginnasti quando li vediamo esibirsi sulle spiagge in numeri da circo e invece li paragoniamo alle scimmie (sottolineando una loro più prossima vicinanza al mondo animale);

Si aggirano vestiti secondo il nostro gusto, dettato da un immaginario primitivista, lavorando come facchini, giardinieri, muratori, addetti alle camere...
Potremmo stupirci del fatto che il loro salario sia inferiore ai due dollari al giorno per lavori ed orari estenuanti, ma giustifichiamo quell'elemosina facendo ricorso al diverso costo della vita (anche se quel genere di salario non la rende degna di essere vissuta nemmeno in una capanna di pali e fango, ma si sa, loro sono naturalmente portati a vivere in quello stato, poi c'è tanta dignità nella povertà, situazione immutabile più che altro per la loro innata pigrizia, del resto il lavoro di tre africani sarebbe svolto in un quarto del tempo da uno zelante europeo) ...

... e poi il loro fisico statuario li rende naturalmente più resistenti alla fatica...

I villaggi sono pieni di bambini! (osservazione astuta, per chi proviene dalla nazione dove ne nascono meno in assoluto)
Fanno molti figli perché sono più fertili e fecondi oltre ad essere maschi superdotati sessualmente e femmine incapaci di controllare un desiderio animalesco...

Avvicinare gli africani al mondo naturale é un meschino tentativo storico di disumanizzarli per renderli, senza rimorsi di coscienza, delle vere e proprie bestie da soma. Così è stato, così è.
Il razzismo non sta nella discriminazione, ma nelle categorie che costruiscono e inferiorizzano l'Altro, creando inconsciamente delle ideologie discriminanti.

Karibuni Kenya.

venerdì 22 aprile 2011

Deiezioni


La strada asfaltata che attraversa Punta Laguna è dritta, drittissima.
Taglia in due una zona di selva maya al confine tra Yucatàn e Quintana Roo. Ogni giorno viene percorsa da un autobus che in mattinata passa in una direzione, in serata in quell'altra. E' raro vedere altri veicoli transitare.

Quando arrivai a Punta Laguna, mi permisero di alloggiare in una abitazione usata come ripostiglio, costruita accanto a quella della famiglia più importante del piccolo villaggio. Lì appesi la mia amaca. Quando chiesi del bagno mi risposero molto sbrigativamente: "al monte", indicando la folta vegetazione, ovvero trovati un posto nella selva circostante.

Non essendoci acqua corrente (e fogne come si sarà compreso) ogni mattina, dovevo percorrere un lungo sentiero per raggiungere la laguna nella quale potevo lavarmi e cercare per l'appunto un "posto comodo" nella selva ombrosa.

Percorrendo il tratto di strada asfaltata che precedeva l'imbocco di quel sentiero, dovevo però accuratamente evitare, nella mia passeggiata mattutina, qualche serpente con la testa mozzata (evidentemente sorpreso da un machete mentre, a caccia di topi, si infilava nel tetto di foglie di palma di una casa) oltre a numerosi escrementi umani disseminati ovunque (!).

Evidentemente il posto più pulito e riservato (approfittando delle prime buie ore del mattino) per espletare i propri bisogni, era proprio quell'utilissimo tratto d'asfalto prospicente le abitazioni; sicuramente migliore della vegetazione intricata e popolata da insetti. Una infrastruttura di indubbia utilità.

Ci stavo ripensando seduto su di una panchina in un parco di Città del Messico dove oziavo in compagnia di Maximino, un amico mazateco.
Maximino non era abituato alla città, tantomeno alla megalopoli che alle spalle di quella panchina si sviluppava in maniera veramente mostruosa. Preferiva di gran lunga le nebbiose montagne della sierra mazateca, lì si trovava a suo agio. I costumi cittadini lo continuavano a stupire.

Quando una donna distinta arrivò al giardino con un buffo cagnolino per liberarlo e farlo divertire nel prato, Maximino mi fece partecipe di ogni sua perplessità nel vedere con quali curiose attenzioni venivano trattati gli animali domestici, elevati al grado di persone.

Il cagnetto dopo un paio di brevi corse comincia ad annusare il suolo, gira e rigira intorno, e la fa. La distinta signora, diligente cittadina, pur camminando instabilmente con lunghi tacchi sul prato, tira fuori dalla borsetta un sacchetto di nylon, si china sugli escrementi e li raccoglie.

Maximino, che ancora doveva abituarsi all'idea di vedere esseri umani parlare, scherzare e giocare con cani e gatti come se fossero bimbi anzichè scacciarli con tizzoni ardenti (com'é invece d'uso nelle regioni indie del Messico profondo), osserva sconcertato, mai avrebbe pensato di vedere un essere umano scendere tanto in basso da dover raccogliere rispettosamente i loro escrementi.

Ma si sa, le deiezioni, come ogni altro rifiuto corporeo, sono oggetto di regole e convenzioni sociali.

Me ne resi conto in particolar modo quando salii su un autobus a Valladolid (Yucatàn). Rimasi in piedi, tutti i posti erano già occupati, molte donne indie rientravano ai loro villaggi dopo aver venduto le loro mercanzie al mercato ed erano intente a mangiare frutta o tortillas di mais.

I miei occhi erano gonfi e arrossati a causa di una brutta influenza che mi aveva causato una congiuntivite. Sono dovuto andare in città apposta per curarmi. In fin dei conti sono orgoglioso della mia congiuntivite, sul bus incrocio infatti altri comprensivi sguardi velati dal continuo spurgare degli occhi.
Mi sento finalmente più vicino al mondo indigeno.

Tiro fuori un fazzoletto pulito dalla tasca, tampono gli occhi gonfi ed umidi, poi mi soffio il naso, due volte. Ripiego il fazzoletto e lo ripongo in tasca.

Un ragazzino osserva attentamente tutta la scena.
Con i suoi occhi nerissimi analizza la sequenza delle mie azioni (fotogramma per fotogramma). Poi, venendo meno al contegno ed alla riservatezza tipiche dell'atteggiamento tragico indigeno (incurante del presente e del futuro), si rivolge a me dicendo: "Cosa fai, lo conservi?"
"Ehm..., si, ...ma soltanto per un po'..." (dico sempre la verità).

[Nella terra del cervo e del fagiano, dove l'uso del fazzoletto non è consueto...]

mercoledì 13 aprile 2011

Perline


Quella donna è molto fortunata, non riesce neanche a muovere il collo.

Suo padre e suo marito dovevano avere molto bestiame da scambiare per ottenere perline di vetro.

Un uomo ha recentemente scambiato dieci capre, tre dromedari ed otto capi di bestiame per ottenere la quantità di perline necessaria per ornare il collo delle sue tre mogli.

Anche i padri decorano il collo delle loro figlie, sarà poi il futuro marito, versando il prezzo della sposa, a far "rientrare" il padre dell'investimento anticipato.

Del resto una donna senza collane è brutta, fa ridere, sembra un cane più che una persona.

L'orgoglio femminile turkana è tutto riposto nelle perline, simbolo della relazione con un uomo che ha avuto successo nella gestione del sistema di produzione.

Akiru non ha molte collane. Quest'oggi ha rinunciato alla propria porzione di latte, lo ha messo in un contenitore ed ha camminato parecchie ore per recarsi al duka (piccolo emporio gestito prevalentemente da Somali) dove ha potuto scambiare il suo latte per qualche perlina ed altri materiali che le serviranno per confezionarsi altri decori, deve trovare marito.

Le perline ottenute con lo scambio sono poche, sono infatti divenute molto più care (e rare) da quando il governo ha scoraggiato l'importazione di perline dalla Boemia per ostacolarne la vendita ai Turkana. E' la strategia scelta per condurli sulla via della civilizzazione (e loro si difendono producendo perline con gli scarti di vetro oppure utilizzando altri materiali).


Lo scorso anno, alla morte del padre di Akiru sono seguite, nel giro di breve tempo, anche quelle dei due fratelli più grandi. Sono stati decessi improvvisi dovuti a diarrea, regolamenti di conti (probabilmente un raid Pokot) ed alla puntura di uno scorpione. Quando anche una nipotina è morta, Akiru si è mozzata la parte superiore dell'orecchio. Una mutilazione volontaria per placare le sventure che si sono abbattute sulla sua famiglia, una richiesta di clemenza alle potenze invisibili, una supplica.

Probabilmente visiterà anche un emuron che le confezionerà degli amuleti da appendere alle sue collane, per ottenere maggiore protezione. E allora il suo collo racconterà anche della visita fatta al guaritore, oltre a comunicare, attraverso i colori e la disposizione delle file di perline, la sua provenienza, il suo gruppo di appartenenza, il suo status sociale, ma anche se è sposata oppure no, se ha figli e quanti di loro sono stati iniziati.

Una storia personale e sociale legata al collo che i bimbi turkana, appesi alla schiena della mamma, iniziano a conoscere fin da subito, durante le lunghe camminate che attraversano il nulla.

[Parlando con Akiru, il suo nome significa "la stagione delle pioggie" in lingua turkana, grazie alla traduzione di John che nel frattempo beve la chang'aa, una birra locale in cui viene fatto fermentare di tutto, ma proprio tutto tutto. Anch'io ne sorseggio un po', dissimulando poca sete, ne pagherò le conseguenze il giorno seguente. Accanto, due anziane signore passano del grasso su file di perline per prevenire la comparsa di pidocchi una volta indossate al collo, le perline non ancora ingrassate rilucono di un mondo perduto]

giovedì 7 aprile 2011

Confini alimentari

Il sentiero che conduce alla mia abitazione si vede poco nell’oscurità, è per questo motivo che sono accompagnato da Eulogio e Arnulfo muniti di due candele poste in lanterne di vetro.

Procediamo lentamente verso il cenote, pozzo naturale intorno al quale è stato costruito questo piccolo villaggio yucateco, per tal ragione si chiama Yodzonot, "sul cenote" in lingua maya.

Abbiamo appena finito di cenare con tortillas di mais e chile habanero, ma l’apporto proteico di oggi non è stato dato dai consueti fagioli, ma da un sereque, grosso roditore del sottobosco cacciato ieri, notte di luna piena, mentre inconsapevole, si andava ad abbeverare. Buono da mangiare, ma non proprio buonissimo da "pensare"...

Il rumore notturno della selva yucateca è impressionante. Ci vogliono alcune notti insonni prima di farci l’abitudine. Oggi c’è però un nuovo rumore che si avverte via via più forte. E’ il gracidio delle rane, i messaggeri di Chaac, divinità legata alle acque, che avvisa l’imminente sopraggiungere della stagione delle piogge. Sono ovunque, si intravedono nell’oscurità, numerosissime e grandi, molto grandi.

Ci sono momenti in cui bisognerebbe stare semplicemente zitti.

Io invece, rompo il silenzio della passeggiata: “sapete che dalle mie parti le rane si mangiano?”.

Gelo ai tropici.

Avendo dovuto mangiare qualsiasi genere di animali durante la mia permanenza nei villaggi maya (dal procione all’iguana, per intenderci) non pensavo ci si potesse turbare poi tanto per delle rane. Oppure avevo affrontato in maniera irriverente un tema sacro, offendendo i messaggeri della divina pioggia?

Nulla di tutto ciò. Era semplicemente disgusto, viscerale disgusto! Dopo un momento di irrigidimento (che mi aveva fatto temere il peggio), compaiono delle lacrime agli occhi di Eulogio ed Arnulfo. Nessuna commozione, era soltanto il preludio ad una canzonatura assolutamente composta (ovvero si lasciano cadere a terra con la pancia in mano indicandosi l’un l’altro e rivolgendosi a me soltanto per dirmi parole dapprima incomprensibili che di lì a poco sarebbero divenute intelligibili: “prendile, prendile pure! Mangiane quante ne vuoi, non c’è problema, sono tutte per te se vuoi!”). Gentili, ma declinerò l'invito.

Non conoscevo ancora la repulsione per il latte di alcune popolazioni orientali (che lo considerano una secrezione disgustosa e puzzolente) o la dieta prevalentemente liquida, a base di latte e sangue di bestiame delle popolazioni africane nilotiche opposta a quella solida dei loro vicini stanziali, che ricavano i loro alimenti dalla terra. I kamba invece provano repulsione per il pesce. Gli Inuìt sono stati chiamati eschimesi dalle popolazioni circostanti perché si nutrivano di carne e pesce crudi, costume barbaro (non per i pugliesi). Non badateci, quasi sempre i nomi attribuiti dai gruppi umani ai loro vicini sono degli insulti (sono cresciuto in una scuola dove i settentrionali erano chiamati polentoni ed i meridionali mangiacorde, alludendo agli spaghetti).

Ne deriva che i confini identitari sono spesso disegnati su gusti, abitudini e divieti alimentari. Provate a preparare una cena facendo attenzione ai divieti haram (diretti ai musulmani), alle restrizioni koshèr (ebraiche), a quelle di vegetariani e vegani, oppure alle esigenze di celiaci, diabetici e allergici. Senza parlare dei gusti personali.

Eppure in tempi multiculturalismo dilagante, ideologia totalizzante in tema di immigrazione, siamo portati a credere che riunire persone diverse intorno ad una tavola imbandita, per condividere del cibo etnico (mi raccomando, non so cosa voglia dire, ma deve essere etnico), generi di per sé un’occasione di incontro e comunicazione semplice ed immediata.

Non si tratta di scordare la convivialità, valore di base nella convivenza, ma lo spopolare della cena etnica come emblema del paradigma multiculturale lascia pensare ad un’ingenuità di fondo che offre più spazio alla superficialità di un consumo estetico dell’Altro (attraverso la degustazione di un piatto tipico) più che produrre le condizioni di una di una sua reale conoscenza.

La furia architettonica di voler costruire ponti (per avvicinare la diversità) sembra prevalere sulla pazienza archeologica di chi vuole scavare in profondità per trovare analogie, differenze e corrispondenze accettando di fatto la complessità del mondo.

Del resto le cose cambiano, mi viene in mente di aver letto (non ricordo più bene dove) che in una classe di una scuola elementare di Bologna, alla richiesta di elencare un piatto preferito tipico del proprio paese, un ragazzino ha risposto con sicurezza cous cous! "Ma quello cucinato da mia mamma, con i tortellini sopra!"

[rileggendo una pagina di diario, volevo raccontare l'episodio delle rane..., poi mi sono lasciato andare]

lunedì 4 aprile 2011

Buono da mangiare

Ed infine arrivano gli stuzzicadenti, trionfali.

Inevitabile e gradita conclusione di un pranzo a base di stufato di capra. Ed arriva anche una brocca d’acqua con una bacinella e del sapone, per lavarsi le mani senza neppure doversi alzare dal tavolo, un vero lusso.

John è sazio. Aspettava questo momento fin da questa mattina quando da Kalekol siamo giunti a Lodwar ed abbiamo scelto la capra che sarebbe poi stata uccisa e cucinata per essere servita nel pomeriggio sotto una tettoia nel polveroso cortile della macelleria.

Lo stufato era accompagnato da sukuma wiki (una sorta di bietola africana tagliata sottilmente) e soprattutto da ugali (polenta compatta di farina di mais bianco).

I nonni di John sarebbero rabbrividiti di fronte a tale composizione di pietanze, passi per la capra, ma i prodotti vegetali no, un Turkana mai avrebbe potuto immaginare che qualcuno del suo gruppo sarebbe sceso tanto in basso da doversi cibare di prodotti della terra. Dalla terra si potevano al limite ricavare, nei brevi periodi di tregua dall’incessante errare, piccole zucche da utilizzare poi come contenitori, non come cibo.

I Turkana, come altre popolazioni nomadi pastorali della Rift Valley si sono sempre orgogliosamente nutriti del sangue e del latte del loro prezioso bestiame, zebù soprattutto, ma oggi anche dromedari, asini e capre, le prime ad essere sacrificate all’esigenza di un nutrimento carneo. E poi bacche e radici raccolte nell’arido territorio turkana al confine keniota con Etiopia e Sudan.

Se invece i raid dei nemici, la carestia o la siccità (c’è un ampio ventaglio di scelta) hanno decimato il bestiame allora la caccia al coccodrillo sulle rive del lago di giada è il sistema al quale si ricorre più frequentemente per procurarsi della carne.

Neanche il tempo di un paio di generazioni e anche quell’ugali (divenuto nutrimento imprescindibile per una popolazione forzatamente spinta a divenire stanziale o semi-stanziale dalle politiche governative), che John raccoglie con la mano, creando un piccolo incavo con il pollice per farne un boccone con un pezzo di carne, sta già diventando un cibo superato, socialmente abietto.

Nelle cittadine più grandi le ragazze “bene” ordinano “chips” quale segno di distinzione che le mantenga a distanza dall’inevitabile equazione ugali uguale povero (e contadino). Più che cattivo da mangiare è divenuto alimento cattivo da pensare. E’ un destino ingrato quello del mais, giunto dalle Americhe per salvare popoli interi dalla fame per poi divenire nel tempo più importante come foraggio che non come alimento (soprattutto in Europa).

E pensare che sto condividendo con John, dal medesimo piatto, un alimento del tutto simile alla polenta, un cibo apprezzato anche dalle mie parti così come in altre regioni della civilizzata Europa, anche se lui lo ritiene assolutamente inverosimile, non ci crede, per lui il mais cucinato in quella maniera è alimento soltanto africano.

John porta una croce al collo. Potrete camminare nei deserti, inoltrarvi nelle foreste, salire sulle più alte montagne e lì troverete (per Dio!) una missione religiosa. Sarà allora stato un passo del Vangelo a convincere anche John e la sua famiglia che ciò che entra nello stomaco dell’uomo non può contaminarlo perché va a finire nel suo ventre e non nel cuore (discorso originario di Gesù contro le restrittive disposizioni alimentari ebraiche).

Sono però sicuro che le generazioni precedenti a quella di John non si sarebbero fatte convincere tanto facilmente e se qualcuno fosse arrivato per dir loro ciò che era bene (ovviamente nulla di quello che fino ad allora avevano fatto o pensato) avrebbero resistito, combattuto o forse consultato le forze invisibili con un lancio di sandali per aria per poi evincere dalla loro disposizione una volta ricaduti, che era meglio andarsene a cercare nuovi pascoli, nuove pozze e pioggia, altrove.

Quel che è sicuro per davvero è che poi, infine, il cibo, dopo essere passato nell’uomo, va a finire sempre e comunque nella fogna, per chi le fogne ce le ha, ovviamente.

[ricordando una delle lunghe giornate passate con John, Turkana, nei dintorni del più "meraviglioso" lago che esista. In un remoto passato le sue rive furono abitate da ogni genere di ominide conosciuto; antenati miei, di John ed anche vostri, che vi piaccia oppure no]

giovedì 31 marzo 2011

La potenza invisibile

La lama scorre sul braccio di Juma, poi velocemente passa ad incidere la spalla e poi ancora sull’avambraccio vicino al polso, ma niente, nessun segno, sangue o ferite.

Poi il coltello viene usato per tagliare della raffia che cede senza sforzo alla lama affilata. Appena prima, una lametta era stata utilizzata dal mganga per praticare piccole incisioni sulla testa, sul petto e sugli avambracci del suo paziente per collocare poi al suo interno della medicina, una polvere nera, trito asciutto e finissimo di erbe segrete.

Ora Juma è più forte, può combattere fino a dieci avversari senza alcun timore. La sua autostima è stata rafforzata (debole spiegazione psicologica), il rituale ha fornito a Juma una protezione sia dagli agguati che dai malefici dei terribili achawi.

Ma l’incantesimo ha un fragile equilibrio e può essere facilmente spezzato, il polpo, in particolare, potrà pregiudicare la sua efficacia. Infatti se Juma se ne ciberà la forza acquisita lo abbandonerà (si tratta di una pratica magica influenzata dal pensiero islamico e non ha effetto su chi si rende impuro mangiando carne di maiale o, in questo caso di polpo, probabilmente uno dei piatti preferiti dal paziente).

Per ingraziarsi gli spiriti e garantirsi la loro protezione Juma ha dovuto portare al mganga un piccolo pollo che è stato in precedenza sacrificato alle potenze invisibili. Preso per le zampe è ora utilizzato per benedire gli atti della cerimonia.

Nei giorni seguenti Juma riflette e si sente orgoglioso di aver ottenuto tale enorme forza poi, volontariamente, decide di mangiare un piatto di polpo stufato accompagnato da riso pilau, e se lo gode, consapevole di aver infranto l’incantesimo. Questa è forza. La magia è potente.

[discutendone con Juma, davanti ad un piatto di ghiteri special con ugali, a lui debbo l’incontro con il mganga duruma Mole]

lunedì 21 marzo 2011

Quando a bere sono gli altri

"E' stata una serata divertente, otto-dieci birre a testa ed anche del vino di palma per concludere la serata, un vero spasso".

"C'era anche Simeon?"
"No, lui e' cristiano, la sua chiesa non gli permette di bere..."

"Ok, Juma, ma tu ti professi musulmano ed anche l'Islam vieta di bere".
"Certo, ma il fatto che sia vietato non vuol dire che la gente non lo faccia".

Ovvio.

Del resto in Africa i cristiani, sono riconoscibili. Basta guardare le scarpe.

[Parlando con l'amico Juma su di un matatu diretto da Ukunda a Tiwi Sokoni]

martedì 15 marzo 2011

Indumenti

"Ma i Maasai si vestono ancora in maniera così antica e ridicola oppure si sono modernizzati e si mettono per esempio dei pantaloni corti?" (?)

No no signora, vestono ancora più o meno come è vestita lei oggi.

[In spiaggia, signora di mezza età vestita, ovviamente, con bikini, ciabattine, un pareo giallo trasparente alla vita ed uno velato azzurro appoggiato su una spalla].

giovedì 10 marzo 2011

Del Maasai di Chivasso

Moses è alto, prestante, ha una lancia e uno scudo, è un vero Maasai.
Anzi è un Samburu.

Si, perché se si vogliono vedere i “veri” Maasai bisogna viaggiare negli aridi territori dei loro “cugini” Samburu (altro gruppo etnico di lingua Maa). Li vedrete litigare in faide sanguinose con i loro vicini Borana e Pokot, a colpi di kalashnikov, per vendicare furti di bestiame o per regolare contese relative all'accesso a pozzi d'acqua (regalo avvelenato di benefattori occidentali che hanno concentrato l'acqua in un solo punto scavando in profondità e prosciugando al contempo tutte le pozze d'acqua del circondario, fonte di vita, per quanto misera e melmosa, per molte famiglie ed il loro bestiame).

Quando i Maasai del sud vennero forzatamente confinati nei parchi del Maasai Mara e del Serengeti fra Kenya e Tanzania, furono obbligati a vedere nel loro bestiame soltanto una fonte di guadagno anziché di prestigio (differenza sottile ma determinante per lo sconvolgimento dei loro equilibri sociali e culturali) e, rinchiusi in territori nei quali non ci si può più dedicare alla pastorizia nomade, furono spinti a diventare un'attrazione turistica per completare la spettacolare offerta della savana africana con i suoi animali selvaggi, visitati ogni giorno da centinaia di pulmini e fuoristrada.

I territori più a nord invece, inospitali, carenti d'acqua e talmente poveri di risorse da non destare alcun interesse commerciale, furono lasciati al loro destino; è così che i Samburu hanno potuto conservare uno stile di vita da veri Maasai. Moses però non vuole fare il pastore veramente Maasai ed emigra a Malindi, sulla costa.

Vende chincaglieria ai turisti. Poi si innamora di una turista italiana (film già visto). E dopo un paio di stagioni decide di raggiungerla in Italia (cult movie). Giunge a Chivasso, dove si impiega in una grande azienda di pulizie e pulisce e pulisce (ripetizione voluta) gli sconfinati uffici dell'Enel. Va d'accordo con i compagni di lavoro, ma i nuovi familiari lo trattano da negro.

E lui se ne va, dopo un anno, senza dire niente a nessuno, di sabato. Torna sulla costa sud di Mombasa a vendere la sua chincaglieria e poi di tanto in tanto recita il ruolo del vero Masaai raccontando a turisti italiani ciò che di sicuro li stupirà. Dice loro di aver imparato l'italiano così bene appuntandosi frasi di tanto in tanto su foglietti, ma poi tradisce la sua conoscenza approfondita della lingua affermando che per uccidere l'elefante con la lancia bisogna “beccarlo” proprio qui dietro l'orecchio altrimenti “non c'è storia”...

Sono molti i Maasai emigrati dai manyatta odoranti di sterco bovino verso Nairobi o sulla costa di Mombasa in cerca di migliori condizioni di vita. Per molti di loro è praticamente assicurato un posto di lavoro nella sicurezza privata.

Deve essere stata colpa di quella che i sociologi chiamano l'etnicizzazione del lavoro migrante, che ha fatto credere a noi europei che, ad esempio, le filippine fossero “naturalmente” portate per i lavori domestici oppure che il lavoro di maggiordomo fosse da affidare preferibilmente a servizievoli (ed effemminati, secondo gli inglesi) sri-lankesi od ancora che le donne dell'est europeo siano senza alcun dubbio, per ovvie ragioni di vicinanza culturale, le migliori badanti per i nostri anziani.

Sarà allora per questo motivo che, in città, ai Maasai, guerrieri per antonomasia, viene affidato con grande fiducia il lavoro di agente di guardia (mah!).

[Parlando con Moses, Samburu, a cui debbo un regalo prezioso]

giovedì 3 marzo 2011

Dell'ossessione occidentale per il tempo

Scusa quanti anni hai?

Mwanamisi risponde serenamente... Diciannove o venti, ma sono abbastanza sicura di compierne ventuno quest'anno.

Moses invece da più di tre anni dice di avere quarant'anni, dovrebbe aggiornarsi, probabilmente.

Ricordo di aver posto la stessa ingenua domanda durante il mio primo soggiorno nello Yucatàn a Mariano il quale mi rispose senza esitazioni: diciannove. Perplesso manifestai qualche dubbio in merito.

Tornammo sull'argomento giusto qualche giorno dopo e lui, vista la mia esitazione nell'accettare per buona l'età dichiarata, mi chiese di seguirlo nella sua abitazione. In un anfratto nella penombra, dopo aver scostato due amache penzolanti, raggiunse un vecchio baule dal quale estrasse, orgoglioso, un impolverato e sgualcito documento di identità redatto dallo Stato dello Yucatán.

Ufficiale.

Leggo la data di nascita riportata ed immediatamente mi rivolgo a lui dicendogli "guarda che hai trent'anni". Con espressione seria mi risponde: "strano, quando me lo consegnarono sono sicuro che mi dissero che di avere diciannove anni".

Così, in molte regioni del mondo, non ci si preoccupa affatto della data di nascita. Il concetto di età reca con sè significati diversi. I documenti di molti africani nati lontano dai centri urbani più importanti, essendo registrati qualche anno dopo la nascita, riportano una data approssimativa, presunta e per questo motivo tantissimi di loro sono nati, o meglio registrati, il primo di gennaio. Per convenzione s'intende, convenzione occidentale.

[Parlando con Mwanamisi, Digo, il suo nome significa figlia di Misi, suo padre]

sabato 26 febbraio 2011

The necklace

Un girocollo di diamanti, è per sempre. Invece uno di copertone d'auto, è la fine.

Al ladro! Grida una vecchina, vestita con un boubou colorato, balzando in piedi per indicare un uomo che corre veloce fra le le merci ordinate e le capre ed i polli spaventati di un mercato caotico e polveroso. Due uomini si gettano all'inseguimento mentre un terzo, allertato da lontano, gli taglia la strada e riesce ad abbatterlo con un calcio volante spettacolare (si fa per dire...).

Un capannello di persone si forma sul ladro che viene linciato impietosamente con pugni, calci e bastonate. Poco a poco la furia si placa. Tumefatto, viene rialzato, con le mani legate; è completamente nudo. I vestiti gli sono stati strappati di dosso per scortarlo attraverso ali di folla che lo insultano, gettando su di lui incomparabile vergogna.

Evidentemente la refurtiva non era così preziosa da giustificare l'usuale regalo previsto per coloro che sopravvivono al linciaggio: un grosso copertone a tracolla (the necklace) al quale poi, semplicemente, si da fuoco.

Solo la polizia può evitare simile epilogo; rubare è proibito dalla legge, rubare ai poveri è proibito dalla gente, in Africa

[ricordando e raccontando a Kalume (Giriama; il suo nome significa "uomo" in kiswahili) una scena vissuta a Kisumu, ma frequente anche nei dintorni di Mombasa: “basta guardare di tanto in tanto ai bordi della strada i resti dei roghi della notte precedente”].

lunedì 21 febbraio 2011

Di un mondo perduto

'MTU MZURI HULA MATUNDA MAZURI' ovvero 'L'UOMO PAZIENTE MANGIA FRUTTI MATURI'

[Patrick, Luhya, ma preferisce il suo nome tribale TANDAS che significa: “bei dintorni, bell'ambiente. Hai presente dopo la stagione delle piogge quando la gente aspetta il raccolto? Fuori è verde, nuvoloso, bello, mattina. Ecco, io sono nato una di quelle mattine”].

lunedì 14 febbraio 2011

Del senso estetico

Jennifer si vergogna, il suo sorriso è divenuto timido ed innaturale. Nemmeno le minuscole sfere lilla e rosa alternate, applicate allo scopo di ingentilire l'accessorio, sono riuscite a ridurre il necessario tempo per abituarsi al nuovo apparecchio dentale.

Jennifer è contenta, perché durante il safari dal quale è appena tornata con i suoi genitori ha potuto vedere tutti i “big five”, i cinque animali che nelle grandi stagioni di caccia offrivano i trofei più ricercati da esporre con orgoglio per assicurare sicuro prestigio a colui che li aveva abbattuti. Durante il safari, il grande fouristrada sul quale viaggiavano ha fatto sosta presso un villaggio Masai.

Una sorta di Manyatta, ovvero un accampamento di quella che fu una fiera popolazione guerriera e nomade che imperversò dominando la Rift Valley per lungo tempo costringendo le altre popolazioni a rifugiarsi nella foresta o sulle colline.

Poi, la costruzione della ferrovia Mombasa-Nairobi-Kampala, realizzata ad inizio secolo e nondimeno la confisca dei terreni da parte del Governo, costrinsero progressivamente i Masai in territori sempre più sacrificati e ristretti tanto da essere ridotti a vivere in agglomerati stanziali popolati da sbandati e sifilitici che interpretano la parte voluta dai turisti che fanno loro visita.

L'Africa ha cessato di essere l'Africa quando si è impedito ai cacciatori di cacciare ed ai guerrieri di combattere.

I manufatti che vengono venduti ai turisti rappresentano, in taluni casi, un pedaggio necessario per uscire dalla situazione sgradevole nella quale ci si è andati a cacciare uscendo momentaneamente dalla bolla ambientale nella quale i turisti sono soliti viaggiare.

Jennifer è stata circondata da alcuni ragazzini suoi coetanei. La maggior parte di loro guarda proprio li, nella bocca di Jennifer, e il suo imbarazzo cresce. I ragazzini portano collane di perline colorate, grossi orecchini che ne allungano i lobi delle orecchie, il volto pieno di mosche e dentature perfette, escludendo l'assenza dei due incisivi inferiori, strappati non appena raggiungono la loro piena crescita (pratica rituale comune alla maggior parte delle popolazioni nilotiche).

La loro insistenza, volta a vendere qualsiasi cosa a Jennifer, si è poco a poco placata, ora vorrebbero curiosamente poter scambiare un oggetto qualsiasi in loro possesso per quella decorazione dentale. La vogliono ad ogni costo.

Jennifer capisce ora i termini della questione cerca di spiegare loro che non si tratta propriamente di una decorazione e non è removibile! Ride. Niente, continuano a guardare con curiosità, troppo bello, pensano a come potrebbero crearsene uno simile, magari riciclando materiali come loro (necessaria) abitudine.

Niente, Jennifer se ne va con il suo prezioso ornamento dentale, per il momento quei Masai dovranno farne a meno.

[Jennifer, tredicenne, di ritorno da un safari al Masai Mara].

mercoledì 12 gennaio 2011

Il lago che c'è, non c'è più!

La maggioranza degli abitanti dello slum Manyatta di Kisumu non sono mai stati al lago. Eppure vivono a meno di cinque chilometri dalle rive del secondo lago più grande al mondo: il mitico lago Vittoria.

E hanno problemi d'acqua, che se va bene scarseggia ed è a pagamento, altrimenti non ce n'e' proprio. L'acqua del lago Vittoria accoglie la maggioranza dei liquami e degli scarichi di Uganda, Tanzania e Kenya e l'acqua e' diventata imbevibile.

Grandi compagnie hanno comprato le rive del lago allo stato keniota e ne impediscono l'accesso, purificano l'acqua chimicamente e la rivendono a caro prezzo. Poi, a differenza dei loro nonni, gli abitanti della costa del lago, non vivono più di pesca, qui il pesce costa più che a Nairobi.

L'introduzione artificiale di una nuova specie, il Nile Perch, nelle acque del lago ha infatti determinato la scomparsa di moltissime specie pescate dai locali con tecniche di micropesca (piroga, lenza, piccole reti). In compenso il Nile Perch ha assunto dimensioni gigantesche e a pescarlo sono soltanto le grandi compagnie con attrezzature da pesca tecnologicamente avanzate (grandi battelli, reti, etc.).

Poi e' stata introdotta la licenza di pesca, pagata dalle grandi compagnie, ma impossibile da pagare per i pescatori che oggi si azzardano a pescare di frodo nottetempo piccole quantità di pesce che poi rivendono al mercato (tra le mosche). I grandi filetti di Nile Perch vengono inviati su camion refrigerati a Nairobi e lavorati in fretta per essere spediti in tutta Europa.

Qualche tempo fa si e' pensato di introdurre il giacinto d'acqua, una pianta per dare riparo e nutrimento alle piccole specie e favorire una loro ripresa (ovviamente per foraggiare il Nile Perch che, dopo essersi mangiato tutte le altre specie, ora soffre di carenze alimentari e la sua taglia torna a diminuire).

Risultato: la pianta e' diventata infestante ed in alcune insenature del lago non si vede nemmeno più l'acqua, sembra semmai una verde prateria. E allora, quelli di Kisumu, così come hanno imparato da altri a riciclare gli pneumatici usati per farne delle calzature, prendono la pianta infestante e dopo averla fatta seccare se ne servono per fare sedie, cesti e sofà. Africa.

[Otieno Samuel, Luo di Kisumu, a ruota libera sulla riva del lago accessibile ai turisti mentre una imbarcazione si fa largo a fatica fra la vegetazione infestante].

domenica 9 gennaio 2011

Mombasa is different, Kisumu is the same...

Nove moschee principali, ma in tutto sono quasi cinquanta in citta', una bellissima cattedrale cattolica, innumerevoli chiese cristiane evangeliche, gospel, pentecostali, anglicane; due templi indù, un tempio Sickh ed altri di difficile identificazione.

Per servire le esigenze religiose di una popolazione di un milione di abitanti composta per il 60% di islamici, il 20% di indù, il 15% di cristiani e la parte restante di persone devote a religioni tradizionali oltre ad un discreto numero di rastafari. Nessun problema di convivenza, sia riguardo la quotidianità (in un edificio possono abitare al contempo islamici, cristiani, indù ed altri) sia nelle scuole o negli ospedali.

"Perche' qui non ci siano attriti fra le persone di diversa confessione religiosa non lo so proprio: "MOMBASA IS DIFFERENT".

(Farouk, fuori dal tempio induista dedicato a Swaminarayan).


Manyatta, uno slum davvero inquietante: roghi di pattumiera e nubi di fumi velenosi in vicoli sterrati e fangosi con cloache puzzolenti a cielo aperto dove si abbeverano capre e polli, fra bambini brutti sporchi e cattivi (ma va?), persone intente a produrre del carbone davanti a case fatiscenti e decrepite.

L'immondizia non è a terra, ma si e' direttamente mescolata con il terreno; e' il suolo. Poi il campo di calcio dello slum, qui si sogna di diventare il futuro Drogba, Eto'o, Essien, Mariga. Piu' avanti una freccia indica il ristorante Monna Lisa Guest House, la seguo, porta ad un garage, mangero' Samosa e Kebab vicino ad una mercedes azzurra con una gomma a terra.

Fuori il mercato: un delirio di genti e di merci, una calca inverosimile di corpi. Mi hanno fregato la fotocamera con degli scatti irripetibili: "KISUMU IS THE SAME".

[dopo una giornata in compagnia di Otieno Samuel, Luo, in giro per la Kisumu downtown].

mercoledì 5 gennaio 2011

Degli oggetti e dei significati


L'esperienza dovrebbe insegnare ad evitare le domande dirette per sapere il nome o la funzione di oggetti a noi sconosciuti. Il rischio, oltre a possibili e frequenti fraintendimenti, e' quello di ricevere per risposta una presa in giro oppure direttamente un insulto.

I musei potrebbero ancora contenere oggetti la cui traduzione del nome a loro attribuito può voler dire in lingue sconosciute stupido, curioso, girovago o altro. Altri fraintendimenti possono riguardare i significati. I viaggiatori che visitano la costa keniota vogliono spesso acquistare un "kikango" ovvero un antenato (raffigurato da una scultura in legno allungata e sottile).

Il fatto e' che per i locali Mijikenda "Giriama" e "Digo" il kikango non e' una scultura che rappresenta l'antenato, ma e' l'antenato stesso! Così quando si sentono chiedere il prezzo di un kikango si domandano perché uno sconosciuto voglia acquistare suo nonno.

Poi, più prosaicamente vendono loro alcune sculture prodotte in serie, domandandosi comunque perché quegli stranieri vadano in giro dicendo di aver acquistato un kikango, quello non e' un kikango!

[Dopo essermi preso del curioso domandando il nome di una vecchia trappola per pesci e da una chiacchierata rivelatrice e consolatoria con Kazy, Giriama].

domenica 2 gennaio 2011

Parametri relativi

Quanto dista il tuo villaggio da Kisumu? Cinquanta scellini.

[Moses, Luo, ad indicare il costo del viaggio con il matatu, mezzo di trasporto collettivo locale]