venerdì 22 aprile 2011

Deiezioni


La strada asfaltata che attraversa Punta Laguna è dritta, drittissima.
Taglia in due una zona di selva maya al confine tra Yucatàn e Quintana Roo. Ogni giorno viene percorsa da un autobus che in mattinata passa in una direzione, in serata in quell'altra. E' raro vedere altri veicoli transitare.

Quando arrivai a Punta Laguna, mi permisero di alloggiare in una abitazione usata come ripostiglio, costruita accanto a quella della famiglia più importante del piccolo villaggio. Lì appesi la mia amaca. Quando chiesi del bagno mi risposero molto sbrigativamente: "al monte", indicando la folta vegetazione, ovvero trovati un posto nella selva circostante.

Non essendoci acqua corrente (e fogne come si sarà compreso) ogni mattina, dovevo percorrere un lungo sentiero per raggiungere la laguna nella quale potevo lavarmi e cercare per l'appunto un "posto comodo" nella selva ombrosa.

Percorrendo il tratto di strada asfaltata che precedeva l'imbocco di quel sentiero, dovevo però accuratamente evitare, nella mia passeggiata mattutina, qualche serpente con la testa mozzata (evidentemente sorpreso da un machete mentre, a caccia di topi, si infilava nel tetto di foglie di palma di una casa) oltre a numerosi escrementi umani disseminati ovunque (!).

Evidentemente il posto più pulito e riservato (approfittando delle prime buie ore del mattino) per espletare i propri bisogni, era proprio quell'utilissimo tratto d'asfalto prospicente le abitazioni; sicuramente migliore della vegetazione intricata e popolata da insetti. Una infrastruttura di indubbia utilità.

Ci stavo ripensando seduto su di una panchina in un parco di Città del Messico dove oziavo in compagnia di Maximino, un amico mazateco.
Maximino non era abituato alla città, tantomeno alla megalopoli che alle spalle di quella panchina si sviluppava in maniera veramente mostruosa. Preferiva di gran lunga le nebbiose montagne della sierra mazateca, lì si trovava a suo agio. I costumi cittadini lo continuavano a stupire.

Quando una donna distinta arrivò al giardino con un buffo cagnolino per liberarlo e farlo divertire nel prato, Maximino mi fece partecipe di ogni sua perplessità nel vedere con quali curiose attenzioni venivano trattati gli animali domestici, elevati al grado di persone.

Il cagnetto dopo un paio di brevi corse comincia ad annusare il suolo, gira e rigira intorno, e la fa. La distinta signora, diligente cittadina, pur camminando instabilmente con lunghi tacchi sul prato, tira fuori dalla borsetta un sacchetto di nylon, si china sugli escrementi e li raccoglie.

Maximino, che ancora doveva abituarsi all'idea di vedere esseri umani parlare, scherzare e giocare con cani e gatti come se fossero bimbi anzichè scacciarli con tizzoni ardenti (com'é invece d'uso nelle regioni indie del Messico profondo), osserva sconcertato, mai avrebbe pensato di vedere un essere umano scendere tanto in basso da dover raccogliere rispettosamente i loro escrementi.

Ma si sa, le deiezioni, come ogni altro rifiuto corporeo, sono oggetto di regole e convenzioni sociali.

Me ne resi conto in particolar modo quando salii su un autobus a Valladolid (Yucatàn). Rimasi in piedi, tutti i posti erano già occupati, molte donne indie rientravano ai loro villaggi dopo aver venduto le loro mercanzie al mercato ed erano intente a mangiare frutta o tortillas di mais.

I miei occhi erano gonfi e arrossati a causa di una brutta influenza che mi aveva causato una congiuntivite. Sono dovuto andare in città apposta per curarmi. In fin dei conti sono orgoglioso della mia congiuntivite, sul bus incrocio infatti altri comprensivi sguardi velati dal continuo spurgare degli occhi.
Mi sento finalmente più vicino al mondo indigeno.

Tiro fuori un fazzoletto pulito dalla tasca, tampono gli occhi gonfi ed umidi, poi mi soffio il naso, due volte. Ripiego il fazzoletto e lo ripongo in tasca.

Un ragazzino osserva attentamente tutta la scena.
Con i suoi occhi nerissimi analizza la sequenza delle mie azioni (fotogramma per fotogramma). Poi, venendo meno al contegno ed alla riservatezza tipiche dell'atteggiamento tragico indigeno (incurante del presente e del futuro), si rivolge a me dicendo: "Cosa fai, lo conservi?"
"Ehm..., si, ...ma soltanto per un po'..." (dico sempre la verità).

[Nella terra del cervo e del fagiano, dove l'uso del fazzoletto non è consueto...]

mercoledì 13 aprile 2011

Perline


Quella donna è molto fortunata, non riesce neanche a muovere il collo.

Suo padre e suo marito dovevano avere molto bestiame da scambiare per ottenere perline di vetro.

Un uomo ha recentemente scambiato dieci capre, tre dromedari ed otto capi di bestiame per ottenere la quantità di perline necessaria per ornare il collo delle sue tre mogli.

Anche i padri decorano il collo delle loro figlie, sarà poi il futuro marito, versando il prezzo della sposa, a far "rientrare" il padre dell'investimento anticipato.

Del resto una donna senza collane è brutta, fa ridere, sembra un cane più che una persona.

L'orgoglio femminile turkana è tutto riposto nelle perline, simbolo della relazione con un uomo che ha avuto successo nella gestione del sistema di produzione.

Akiru non ha molte collane. Quest'oggi ha rinunciato alla propria porzione di latte, lo ha messo in un contenitore ed ha camminato parecchie ore per recarsi al duka (piccolo emporio gestito prevalentemente da Somali) dove ha potuto scambiare il suo latte per qualche perlina ed altri materiali che le serviranno per confezionarsi altri decori, deve trovare marito.

Le perline ottenute con lo scambio sono poche, sono infatti divenute molto più care (e rare) da quando il governo ha scoraggiato l'importazione di perline dalla Boemia per ostacolarne la vendita ai Turkana. E' la strategia scelta per condurli sulla via della civilizzazione (e loro si difendono producendo perline con gli scarti di vetro oppure utilizzando altri materiali).


Lo scorso anno, alla morte del padre di Akiru sono seguite, nel giro di breve tempo, anche quelle dei due fratelli più grandi. Sono stati decessi improvvisi dovuti a diarrea, regolamenti di conti (probabilmente un raid Pokot) ed alla puntura di uno scorpione. Quando anche una nipotina è morta, Akiru si è mozzata la parte superiore dell'orecchio. Una mutilazione volontaria per placare le sventure che si sono abbattute sulla sua famiglia, una richiesta di clemenza alle potenze invisibili, una supplica.

Probabilmente visiterà anche un emuron che le confezionerà degli amuleti da appendere alle sue collane, per ottenere maggiore protezione. E allora il suo collo racconterà anche della visita fatta al guaritore, oltre a comunicare, attraverso i colori e la disposizione delle file di perline, la sua provenienza, il suo gruppo di appartenenza, il suo status sociale, ma anche se è sposata oppure no, se ha figli e quanti di loro sono stati iniziati.

Una storia personale e sociale legata al collo che i bimbi turkana, appesi alla schiena della mamma, iniziano a conoscere fin da subito, durante le lunghe camminate che attraversano il nulla.

[Parlando con Akiru, il suo nome significa "la stagione delle pioggie" in lingua turkana, grazie alla traduzione di John che nel frattempo beve la chang'aa, una birra locale in cui viene fatto fermentare di tutto, ma proprio tutto tutto. Anch'io ne sorseggio un po', dissimulando poca sete, ne pagherò le conseguenze il giorno seguente. Accanto, due anziane signore passano del grasso su file di perline per prevenire la comparsa di pidocchi una volta indossate al collo, le perline non ancora ingrassate rilucono di un mondo perduto]

giovedì 7 aprile 2011

Confini alimentari

Il sentiero che conduce alla mia abitazione si vede poco nell’oscurità, è per questo motivo che sono accompagnato da Eulogio e Arnulfo muniti di due candele poste in lanterne di vetro.

Procediamo lentamente verso il cenote, pozzo naturale intorno al quale è stato costruito questo piccolo villaggio yucateco, per tal ragione si chiama Yodzonot, "sul cenote" in lingua maya.

Abbiamo appena finito di cenare con tortillas di mais e chile habanero, ma l’apporto proteico di oggi non è stato dato dai consueti fagioli, ma da un sereque, grosso roditore del sottobosco cacciato ieri, notte di luna piena, mentre inconsapevole, si andava ad abbeverare. Buono da mangiare, ma non proprio buonissimo da "pensare"...

Il rumore notturno della selva yucateca è impressionante. Ci vogliono alcune notti insonni prima di farci l’abitudine. Oggi c’è però un nuovo rumore che si avverte via via più forte. E’ il gracidio delle rane, i messaggeri di Chaac, divinità legata alle acque, che avvisa l’imminente sopraggiungere della stagione delle piogge. Sono ovunque, si intravedono nell’oscurità, numerosissime e grandi, molto grandi.

Ci sono momenti in cui bisognerebbe stare semplicemente zitti.

Io invece, rompo il silenzio della passeggiata: “sapete che dalle mie parti le rane si mangiano?”.

Gelo ai tropici.

Avendo dovuto mangiare qualsiasi genere di animali durante la mia permanenza nei villaggi maya (dal procione all’iguana, per intenderci) non pensavo ci si potesse turbare poi tanto per delle rane. Oppure avevo affrontato in maniera irriverente un tema sacro, offendendo i messaggeri della divina pioggia?

Nulla di tutto ciò. Era semplicemente disgusto, viscerale disgusto! Dopo un momento di irrigidimento (che mi aveva fatto temere il peggio), compaiono delle lacrime agli occhi di Eulogio ed Arnulfo. Nessuna commozione, era soltanto il preludio ad una canzonatura assolutamente composta (ovvero si lasciano cadere a terra con la pancia in mano indicandosi l’un l’altro e rivolgendosi a me soltanto per dirmi parole dapprima incomprensibili che di lì a poco sarebbero divenute intelligibili: “prendile, prendile pure! Mangiane quante ne vuoi, non c’è problema, sono tutte per te se vuoi!”). Gentili, ma declinerò l'invito.

Non conoscevo ancora la repulsione per il latte di alcune popolazioni orientali (che lo considerano una secrezione disgustosa e puzzolente) o la dieta prevalentemente liquida, a base di latte e sangue di bestiame delle popolazioni africane nilotiche opposta a quella solida dei loro vicini stanziali, che ricavano i loro alimenti dalla terra. I kamba invece provano repulsione per il pesce. Gli Inuìt sono stati chiamati eschimesi dalle popolazioni circostanti perché si nutrivano di carne e pesce crudi, costume barbaro (non per i pugliesi). Non badateci, quasi sempre i nomi attribuiti dai gruppi umani ai loro vicini sono degli insulti (sono cresciuto in una scuola dove i settentrionali erano chiamati polentoni ed i meridionali mangiacorde, alludendo agli spaghetti).

Ne deriva che i confini identitari sono spesso disegnati su gusti, abitudini e divieti alimentari. Provate a preparare una cena facendo attenzione ai divieti haram (diretti ai musulmani), alle restrizioni koshèr (ebraiche), a quelle di vegetariani e vegani, oppure alle esigenze di celiaci, diabetici e allergici. Senza parlare dei gusti personali.

Eppure in tempi multiculturalismo dilagante, ideologia totalizzante in tema di immigrazione, siamo portati a credere che riunire persone diverse intorno ad una tavola imbandita, per condividere del cibo etnico (mi raccomando, non so cosa voglia dire, ma deve essere etnico), generi di per sé un’occasione di incontro e comunicazione semplice ed immediata.

Non si tratta di scordare la convivialità, valore di base nella convivenza, ma lo spopolare della cena etnica come emblema del paradigma multiculturale lascia pensare ad un’ingenuità di fondo che offre più spazio alla superficialità di un consumo estetico dell’Altro (attraverso la degustazione di un piatto tipico) più che produrre le condizioni di una di una sua reale conoscenza.

La furia architettonica di voler costruire ponti (per avvicinare la diversità) sembra prevalere sulla pazienza archeologica di chi vuole scavare in profondità per trovare analogie, differenze e corrispondenze accettando di fatto la complessità del mondo.

Del resto le cose cambiano, mi viene in mente di aver letto (non ricordo più bene dove) che in una classe di una scuola elementare di Bologna, alla richiesta di elencare un piatto preferito tipico del proprio paese, un ragazzino ha risposto con sicurezza cous cous! "Ma quello cucinato da mia mamma, con i tortellini sopra!"

[rileggendo una pagina di diario, volevo raccontare l'episodio delle rane..., poi mi sono lasciato andare]

lunedì 4 aprile 2011

Buono da mangiare

Ed infine arrivano gli stuzzicadenti, trionfali.

Inevitabile e gradita conclusione di un pranzo a base di stufato di capra. Ed arriva anche una brocca d’acqua con una bacinella e del sapone, per lavarsi le mani senza neppure doversi alzare dal tavolo, un vero lusso.

John è sazio. Aspettava questo momento fin da questa mattina quando da Kalekol siamo giunti a Lodwar ed abbiamo scelto la capra che sarebbe poi stata uccisa e cucinata per essere servita nel pomeriggio sotto una tettoia nel polveroso cortile della macelleria.

Lo stufato era accompagnato da sukuma wiki (una sorta di bietola africana tagliata sottilmente) e soprattutto da ugali (polenta compatta di farina di mais bianco).

I nonni di John sarebbero rabbrividiti di fronte a tale composizione di pietanze, passi per la capra, ma i prodotti vegetali no, un Turkana mai avrebbe potuto immaginare che qualcuno del suo gruppo sarebbe sceso tanto in basso da doversi cibare di prodotti della terra. Dalla terra si potevano al limite ricavare, nei brevi periodi di tregua dall’incessante errare, piccole zucche da utilizzare poi come contenitori, non come cibo.

I Turkana, come altre popolazioni nomadi pastorali della Rift Valley si sono sempre orgogliosamente nutriti del sangue e del latte del loro prezioso bestiame, zebù soprattutto, ma oggi anche dromedari, asini e capre, le prime ad essere sacrificate all’esigenza di un nutrimento carneo. E poi bacche e radici raccolte nell’arido territorio turkana al confine keniota con Etiopia e Sudan.

Se invece i raid dei nemici, la carestia o la siccità (c’è un ampio ventaglio di scelta) hanno decimato il bestiame allora la caccia al coccodrillo sulle rive del lago di giada è il sistema al quale si ricorre più frequentemente per procurarsi della carne.

Neanche il tempo di un paio di generazioni e anche quell’ugali (divenuto nutrimento imprescindibile per una popolazione forzatamente spinta a divenire stanziale o semi-stanziale dalle politiche governative), che John raccoglie con la mano, creando un piccolo incavo con il pollice per farne un boccone con un pezzo di carne, sta già diventando un cibo superato, socialmente abietto.

Nelle cittadine più grandi le ragazze “bene” ordinano “chips” quale segno di distinzione che le mantenga a distanza dall’inevitabile equazione ugali uguale povero (e contadino). Più che cattivo da mangiare è divenuto alimento cattivo da pensare. E’ un destino ingrato quello del mais, giunto dalle Americhe per salvare popoli interi dalla fame per poi divenire nel tempo più importante come foraggio che non come alimento (soprattutto in Europa).

E pensare che sto condividendo con John, dal medesimo piatto, un alimento del tutto simile alla polenta, un cibo apprezzato anche dalle mie parti così come in altre regioni della civilizzata Europa, anche se lui lo ritiene assolutamente inverosimile, non ci crede, per lui il mais cucinato in quella maniera è alimento soltanto africano.

John porta una croce al collo. Potrete camminare nei deserti, inoltrarvi nelle foreste, salire sulle più alte montagne e lì troverete (per Dio!) una missione religiosa. Sarà allora stato un passo del Vangelo a convincere anche John e la sua famiglia che ciò che entra nello stomaco dell’uomo non può contaminarlo perché va a finire nel suo ventre e non nel cuore (discorso originario di Gesù contro le restrittive disposizioni alimentari ebraiche).

Sono però sicuro che le generazioni precedenti a quella di John non si sarebbero fatte convincere tanto facilmente e se qualcuno fosse arrivato per dir loro ciò che era bene (ovviamente nulla di quello che fino ad allora avevano fatto o pensato) avrebbero resistito, combattuto o forse consultato le forze invisibili con un lancio di sandali per aria per poi evincere dalla loro disposizione una volta ricaduti, che era meglio andarsene a cercare nuovi pascoli, nuove pozze e pioggia, altrove.

Quel che è sicuro per davvero è che poi, infine, il cibo, dopo essere passato nell’uomo, va a finire sempre e comunque nella fogna, per chi le fogne ce le ha, ovviamente.

[ricordando una delle lunghe giornate passate con John, Turkana, nei dintorni del più "meraviglioso" lago che esista. In un remoto passato le sue rive furono abitate da ogni genere di ominide conosciuto; antenati miei, di John ed anche vostri, che vi piaccia oppure no]