giovedì 10 marzo 2011

Del Maasai di Chivasso

Moses è alto, prestante, ha una lancia e uno scudo, è un vero Maasai.
Anzi è un Samburu.

Si, perché se si vogliono vedere i “veri” Maasai bisogna viaggiare negli aridi territori dei loro “cugini” Samburu (altro gruppo etnico di lingua Maa). Li vedrete litigare in faide sanguinose con i loro vicini Borana e Pokot, a colpi di kalashnikov, per vendicare furti di bestiame o per regolare contese relative all'accesso a pozzi d'acqua (regalo avvelenato di benefattori occidentali che hanno concentrato l'acqua in un solo punto scavando in profondità e prosciugando al contempo tutte le pozze d'acqua del circondario, fonte di vita, per quanto misera e melmosa, per molte famiglie ed il loro bestiame).

Quando i Maasai del sud vennero forzatamente confinati nei parchi del Maasai Mara e del Serengeti fra Kenya e Tanzania, furono obbligati a vedere nel loro bestiame soltanto una fonte di guadagno anziché di prestigio (differenza sottile ma determinante per lo sconvolgimento dei loro equilibri sociali e culturali) e, rinchiusi in territori nei quali non ci si può più dedicare alla pastorizia nomade, furono spinti a diventare un'attrazione turistica per completare la spettacolare offerta della savana africana con i suoi animali selvaggi, visitati ogni giorno da centinaia di pulmini e fuoristrada.

I territori più a nord invece, inospitali, carenti d'acqua e talmente poveri di risorse da non destare alcun interesse commerciale, furono lasciati al loro destino; è così che i Samburu hanno potuto conservare uno stile di vita da veri Maasai. Moses però non vuole fare il pastore veramente Maasai ed emigra a Malindi, sulla costa.

Vende chincaglieria ai turisti. Poi si innamora di una turista italiana (film già visto). E dopo un paio di stagioni decide di raggiungerla in Italia (cult movie). Giunge a Chivasso, dove si impiega in una grande azienda di pulizie e pulisce e pulisce (ripetizione voluta) gli sconfinati uffici dell'Enel. Va d'accordo con i compagni di lavoro, ma i nuovi familiari lo trattano da negro.

E lui se ne va, dopo un anno, senza dire niente a nessuno, di sabato. Torna sulla costa sud di Mombasa a vendere la sua chincaglieria e poi di tanto in tanto recita il ruolo del vero Masaai raccontando a turisti italiani ciò che di sicuro li stupirà. Dice loro di aver imparato l'italiano così bene appuntandosi frasi di tanto in tanto su foglietti, ma poi tradisce la sua conoscenza approfondita della lingua affermando che per uccidere l'elefante con la lancia bisogna “beccarlo” proprio qui dietro l'orecchio altrimenti “non c'è storia”...

Sono molti i Maasai emigrati dai manyatta odoranti di sterco bovino verso Nairobi o sulla costa di Mombasa in cerca di migliori condizioni di vita. Per molti di loro è praticamente assicurato un posto di lavoro nella sicurezza privata.

Deve essere stata colpa di quella che i sociologi chiamano l'etnicizzazione del lavoro migrante, che ha fatto credere a noi europei che, ad esempio, le filippine fossero “naturalmente” portate per i lavori domestici oppure che il lavoro di maggiordomo fosse da affidare preferibilmente a servizievoli (ed effemminati, secondo gli inglesi) sri-lankesi od ancora che le donne dell'est europeo siano senza alcun dubbio, per ovvie ragioni di vicinanza culturale, le migliori badanti per i nostri anziani.

Sarà allora per questo motivo che, in città, ai Maasai, guerrieri per antonomasia, viene affidato con grande fiducia il lavoro di agente di guardia (mah!).

[Parlando con Moses, Samburu, a cui debbo un regalo prezioso]

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