venerdì 21 settembre 2012

Il mayordomo


Livida ed esanime, appoggiata mollemente su di un grosso ceppo dalla sera precedente, la testa del maiale iniziava ad essere percorsa da grosse formiche che, dal suolo, la raggiungevano incolonnate, pacificamente voraci. Il sangue raggrumato sotto l'occhio era divenuto un banchetto per un paio di mosche che brillavano di verde e blu, riflettendo il primo chiarore del mattino, setacciato dalle ampie fessure visibili tra i piccoli tronchi di cui erano fatte le pareti della casa di Serapio. Anche la ghirlanda di fiori che l'agghindava stava perdendo la turgida freschezza tropicale, esibita il giorno precedente durante i festeggiamenti.

Quando il pick-up rosso, fumoso, scassato e molto rumoroso, arrivò al villaggio, quattro uomini balzarono giù dal cassone e, con un portamento orgoglioso tipicamente mestizo, si diressero con la testa dell'animale verso un gruppo di abitazioni isolate. Serapio e la moglie non si emozionarono, rimasero impassibili, alla maniera india, tragica, scrutando la scena dietro uno sguardo freddo e distaccato (tutto già visto insomma, assolutamente ovvio). Offrirono ai forestieri atole de maíz, un cartone di birre ed alcuni tamales avvolti in foglie di banano, scambiarono solo poche parole.

Da quando Serapio era riuscito ad emancipare il proprio nucleo famigliare dall'economia di sussistenza (piegare la schiena sulla terra ripulendola dagli arbusti con il machete per prepararla alla semina, sperando di non essere morsi da un serpente), ai cui stenti erano invece ancora legate tutte le altre famiglie del piccolo villaggio, il suo prestigio aumentò a dismisura. E con esso la sua arroganza. Il suo atteggiamento divenne sempre più autoritario e svilente nei confronti dei membri della sua comunità rurale, fondata cinquant'anni prima da suo padre quando decise di spingersi nel fitto della selva yucateca per giungere le sponde di una silenziosa laguna, alla ricerca di alberi per estrarre il chicle (quando masticate i chicles, state parlando maya, non inglese...). Ormai insofferente verso la vita rurale, era solito recarsi sempre più assiduamente in una vicina cittadina, che raggiungeva periodicamente in autobus generalmente insieme ai due figli più grandi. L'entrata nell'economia monetaria si manifestò poi, con un accumulo di beni materiali da esibire nelle relazioni sociali. Biciclette ed orologi apparirono per la prima volta nel villaggio sulla laguna.
E con essi apparve anche la birra (Miracolo? No, disgrazia).

Ma il simbolo più autentico dell'agognata mobilità sociale raggiunta da Serapio era da cercare in un acquisto fatto nella vicina Chemax, autentica capitale indigena della regione maya. Si trattava di una casa "vera", in mattoni di cemento, anche se dalla porta sul retro si poteva accedere ad un ambiente costruito in maniera tradizionale, con piccoli tronchi di legno duro schierati ad ellisse e coperti da un tetto di foglie di palma con tre grosse pietre adagiate a triangolo sul pavimento di terra battuta per permettere alla moglie, alle figlie ed alle nuore di allestire un fuoco per cucinare. Per Serapio, dare maggior libertà alle donne di casa significava costruire per loro una cucina più ampia e confortevole (l'amore è un'ideologia che funziona secondo le logiche della divisione sessuale del lavoro).

Io stesso divenni parte del corredo simbolico della famiglia quando mi invitarono presso la loro nuova abitazione urbana con il solo scopo di passeggiare per le strade cittadine esibendo la compagnia di uno straniero bianco (fate la riverenza), un investimento in immagine a lor dire preziosissimo.
Diversamente, molto diversamente, i bimbi del villaggio mi chiamavano zotz, pipistrello, per la mia pelosità che appariva eccessiva (affettuosa ripugnanza) agli occhi di futuri uomini glabri.

A ciascuno di loro sarebbe potuto accadere un giorno di trovare fuori dalla porta di casa una testa di maiale. Un atto simbolico che rappresenta un'investitura di grande responsabilità in quanto assegna il ruolo di mayordomo. Uno scalino fondamentale da percorrere nella scalata al sistema di cariche civico-religiose locali. In gioco c'è la cosa più preziosa per l'essere umano: il prestigio (la salute è la soluzione di ripiego per coloro che il prestigio non se lo possono permettere).

Pensate al sistema delle caste indiane ed al lignaggio africano ed avrete l'idea dell'importanza simbolica e sociale del sistema de cargo mesoamericano.

Il mayordomo designato ha un anno di tempo per organizzare una festa per l'intera cittadina facendosi carico personalmente di ogni onere e spesa. Di contro, il prestigio raccolto dalla buona riuscita del grande evento costituirà un onore per l'intera famiglia che si conserverà per diverse generazioni. Anche il santo patrono saprà essergli grato (possiamo starne certi). In passato non accettare l'incarico avrebbe portato dritti al carcere oltre a dover subire il ben più penalizzante (e paralizzante) discredito sociale.

Per alcuni studiosi queste feste hanno la funzione di redistribuire le ricchezze economiche e proteiche attraverso l'allestimento di sontuosi banchetti e lascivi divertimenti, livellando così le differenze esistenti.

Quando Serapio decise di avvalersi della collaborazione di altre persone per fronteggiare l'enorme costo dell'organizzazione di cui si doveva far carico, si recò presso una piccola casa di cemento rosa piuttosto malandata all'entrata del paese. Dopo aver scostato il lenzuolo che pendeva sull'uscio sentì l'intenso profumo delle bucce dei mandarini ammucchiate sul pavimento in mezzo ad un gruppo di uomini che, seduti ciascuno su di un cartone di birre, bevevano e mangiavano frutta (diciamo che bevevano più che altro).

Fu accolto con abbracci e grandi pacche sulle spalle. Serapio e i due figli si unirono al gruppo e continuarono a bere birra e sbucciare mandarini sino a quando non fu completato "il giro" ovvero quando ciascuno dei presenti non avesse pagato una birra a tutti gli altri (il trionfo della reciprocità). Erano in tredici, parlarono di tori, maiali, birre e puttane (ma di quest'ultimo argomento soltanto dopo la decima birra, i mandarini erano finiti, ma nessuno se ne curò).

Fu il primo di diversi incontri. La base logistica era posta nella nuova casa. Una scatola di cemento blu, senza troppe pretese, ma appena ridipinta, con due piccole finestre ai lati ed una porta al centro, blu anch'essa. Di fronte, separata da una strada polverosa, l'abitazione dell'imbianchino, una sorta di colorificio alla buona, sulla cui parete esterna campeggiava la seguente scritta pubblicitaria: Se pintan las casas de todos los colores, amarillo también (Si pitturano le case di ogni colore, anche giallo).

Come, anche giallo?!? Anche giallo? Sì, anche giallo. (Mah!).

Entrando nella casa di Serapio, sulla parte sinistra dell'unico spazio, pendevano delle amache colorate fissate a ganci di metallo cromati; la porta aperta sul retro lasciava intravedere la cucina dove le donne avevano già acceso il fuoco a legna per preparare le tortillas sul comal. Quando il fumo filtrava in casa, tagliava il respiro e faceva lacrimare gli occhi. Sulla destra, in un angolo, si stagliava, incredibile e solitario, un frigorifero enorme, nuovo, con doppia porta, metallizzato e luccicante. Nell'altro angolo, una grossa cassa di legno reggeva un televisore immenso, nero, con la pellicola sullo schermo ancora da rimuovere.

Gli elettrodomestici costituivano una novità per la famiglia di Serapio visto che il villaggio da cui provenivano non era raggiunto dalla rete elettrica (e, oltre alla luce, mancavano anche l'acqua intubata e le fogne, ma la chiesa sì, quella c'era, bontà divina).

Pensai alla straordinaria opportunità che gli si presentava, poter conservare gli alimenti senza doverli necessariamente affumicare sulla parete di tronchi prospiciente il fuoco. Ma mi sbagliavo, non solo perché le zampe di maiale e le pannocchie continuavano a penzolare annerite dal fumo dietro al fuoco della cucina, ma perché quando il frigo fu aperto mi resi conto che non ci sarebbe stato spazio per introdurre alcunché, neanche una sottiletta, talmente era pieno e stipato fino all'inverosimile, di bottiglie di Coca-Cola (!). Una quantità incredibile di bibite ghiacciate. Ed era importante che fossero davvero molto fredde giacché non erano lì in previsione di una festa imminente, ma avrebbero dovuto assolvere ad una funzione terapeutica. Sì, una cura prodigiosa per i maschi adulti della famiglia di ritorno dai bagordi cittadini. Per curare la cruda infatti (ovvero i postumi di una sbronza), disturbo classificato come caldo, dalla tassonomia medica amerindiana (giacché caldo è l'elemento che l'ha causato: l'alcol), è necessario un rimedio freddo (et voilà, voi non tenete alcune medicine in frigo?).

Ma il meglio in assoluto fu quando, per la prima volta, fu acceso il televisore. Ad ogni gesto per cercare di metterlo in funzione ero osservato in cerca di un cenno di approvazione. Si accese. L'unico canale visibile trasmetteva un film in bianco e nero con Pedro Infante, un attore e cantante messicano molto famoso. Sedie e sedili di legno furono radunati affinché tutti prendessero posto (donne escluse, loro potevano soltanto sbirciare dalla cucina). Il film non era male, alcune battute ironiche erano forse un po' fuori dalla portata di persone che avevano passato l'esistenza a coltivare campi di maíz dialogando con spiriti che evidentemente non hanno nel sarcasmo la loro miglior virtù.

Gli sguardi erano talmente presi e rapiti dalle immagini sullo schermo che ci si scordò di respirare. Per lunghi minuti il film scorse con colpi di scena continui, senza però destare la più piccola reazione del ristretto pubblico, muto, letteralmente in apnea.

Poi, all'improvviso, in una scena di transizione, apparve un poliziotto su di una moto, disse qualcosa ad un personaggio in strada e si allontanò con un rombo del motore che continuò a far da sottofondo ad una lunga soggettiva dell'agente seduto di profilo alla guida del veicolo. Delirio. Incredibile delirio.

Una risata collettiva e fragorosa squarciò la stanza, proseguì fra il rumore di sedie che cadevano sul pavimento e terminò a stento soltanto dopo alcuni minuti di indicibile subbuglio, con i figli più grandi di Serapio addirittura stesi a terra dal ridere, indicando lo schermo, presi da spasmi incontrollabili.

L'attacco di ilarità scemò e la scena degli spettatori si ricompose quando il film fu interrotto dalla pubblicità. Gli sguardi furono nuovamente rapiti da altre immagini a colori, sensazionali. Un grosso elefante colorato danzava intorno a bambini felici in un prato di montagna e dopo un balletto surreale finì per tuffarsi in un sacchetto di caramelle con altri animali, un trionfo. Poi cambiò lo spot, un uomo semi-nudo si rasava la barba guardandosi allo specchio (i maya sono generalmente glabri, non possiedono barba, ma soltanto un accenno di baffi) mentre da dietro, una figura femminile con mani affusolate e lunghe unghie rosse gli cingeva il petto e ad ogni passata di rasoio il risciacquo proveniva fresco dalla derapata di uno sportivo sugli sci d'acqua che, dall'interno dello specchio, creava un'onda che andava a spazzare il viso di quell'uomo che ora appariva completamente rasato e luminoso. Pazzesco. Insensato.

Fu davvero troppo, anche le donne emersero con lo sguardo fisso dalla cucina e improvvisamente compresero anche la lingua spagnola che prima affermavano di non conoscere, si avvicinarono camminando meccanicamente e tutti erano attoniti e stupefatti, e muti, e nessuno sapeva più cosa dire o cosa fare, era davvero troppo, anche per me lo era.

Se avessi guardato fuori dalla finestra avrei probabilmente potuto vedere dei galeoni spagnoli ormeggiati all'orizzonte oppure le insegne di un nuovo centro commerciale Wal-Mart.

Rimasi lì, silenzioso, ad osservare un teatro di antropologie in atto, una performance collettiva  in cui ciascuno cercava di colmare di senso, lo spazio immaginario che lo separava dall'Altro, come in un gioco di specchi infinito.

Stavo scoprendo l'America? Avevo urgente bisogno di rileggere Todorov, e anche di bere qualcosa di fresco, una birra, o una bibita meglio, non so, pensavo ad una Pepsi, per esempio.


Nessun commento:

Posta un commento